QI - Questioni e idee in psicologia - Il magazine online di Hogrefe Editore

Qi, il magazine online di Hogrefe Editore.
Ogni mese, cultura, scienza ed aggiornamento
in psicologia.

numero 101 - novembre 2022

Hogrefe editore
Archivio riviste

Tema del mese

#PLAYSERIOUSLY: psicologia e game design al servizio dello screening prescolare

#PLAYSERIOUSLY: psicologia e game design al servizio dello screening prescolare

Il videogame come spazio della relazione

La letteratura in ambito psico-evolutivo ha confermato ormai da decenni l’importanza del gioco nella crescita del bambino e nell’acquisizione di competenze motorie, psicologiche e relazionali (tra gli altri Huizinga, 1955; Winnicott, 1984). 
Sebbene il videogioco sia semplicemente la trasposizione delle medesime dinamiche e logiche all’interno di un contesto digitale, esso non ha goduto di pari legittimazione. Al contrario, spesso totalmente scisso dall’esperienza ludica in senso stretto, è stato associato a lungo solo alle sue derive psico-sociali connesse soprattutto all’isolamento e alla dipendenza (Madigan, 2018). 
Senza negare i rischi connessi ad un uso improprio, diverse ricerche ne dimostrano i vantaggi sullo sviluppo motorio e cognitivo dei soggetti che lo praticano con continuità, confermando la natura comune tra gioco e videogioco, a cui vanno riconosciute una serie di altre caratteristiche (positive) proprie della sua contestualizzazione virtuale (tra gli altri Tribordi, Argenton, 2013). Nel videogioco, l’immaginario può prendere forma in modo più realistico favorendo il coinvolgimento e l’implicazione; la complessità narrativa è maggiore; coinvolge pubblici di età superiore rispetto a quelli tipici del gioco (spesso associato all’infanzia, almeno nelle sue forme più tipiche); favorisce la compresenza di soggetti che sono fisicamente lontani ecc. 
Proprio in virtù di questo mancato riconoscimento del videogioco come strumento e contesto di potenziamento – al pari del gioco – nei game studies è andata affermandosi, non senza un certo dibattito, l’etichetta di applied game o serious game per distinguere la produzione di giochi con esplicite finalità educative, dal videogioco propriamente detto, a cui si riconosce soprattutto finalità di intrattenimento (Schmidt, Emmerich, Schmidt, 2015). 
Il progetto #Playseriously parte dall’assunto che il gioco possa essere un interessante terreno dove costruire relazioni, non solo puramente ludiche, ma anche costruttive e finalizzate al potenziamento e allo screening. 
L’esperienza pandemica ha messo a dura prova tutte le forme di terapia, di supporto, di screening e diagnosi basate sulla relazione diretta paziente-specialista, portando alla luce l’urgenza di un adattamento delle tecniche ai contesti virtuali. Dall’altro lato, soprattutto con i pazienti più giovani, si evidenzia spesso una certa criticità nel lavoro di screening poiché il contesto clinico, in studio, abbinato alla situazione specifica della “messa alla prova”, può innescare ansia da prestazione, portando a valutazioni errate. 
Il gioco digitale, dal nostro punto di vista, si presta ad essere un punto di incontro alternativo sia per lo screening che per il lavoro di potenziamento e di monitoraggio delle evoluzioni dei piccoli pazienti (Thompson, Foldnes, Uppstad, 2020). 
Più nello specifico, il progetto mira a sviluppare un gioco digitale che sia idoneo a monitorare alcuni dei predittori della dislessia; sviluppo che è avvenuto proprio attraverso un contest ibrido come l’hackathon, che mette insieme due ingredienti tipici del gioco: la creatività e la sfida. 

#Playseriously: una sfida trasversale

Alla luce delle precedenti premesse il SAE Institute, grazie a un progetto co-finanziato dal Central European Initiative Fund e con la collaborazione di altre 5 istituzioni internazionali, ha lanciato un hackathon, ovvero una sfida creativa per lo sviluppo di un videogioco che potesse consentire di individuare ed eventualmente monitorare alcuni predittori della dislessia nella fase prescolare. 
Nella convinzione che il gioco possa essere uno spazio della relazione non solo nel suo pieno compimento ma anche nella programmazione, l’evento ha visto il coinvolgimento di professionisti junior e soprattutto studenti provenienti da percorsi diversi e, da un certo punto di vista, anche distanti. L’iniziativa ha visto infatti la partecipazione di game designergame artist e psicologi, pedagogisti, educatori ed altre figure che hanno la preparazione e spesso anche l’esperienza diretta sul campo con bambini DSA. 
Le squadre avevano a disposizione un sintetico brief che illustrava il concept, il tipo di competenza da testare con alcuni esempi tratti da test standardizzati, e le indicazioni sui materiali di consegna. Il concept era il risultato di uno studio preliminare basato su un campione di 20 bambini di età compresa tra i 5 e i 7 anni a cui era stato chiesto di valutare lo sviluppo grafico di alcuni personaggi e due possibili incipit narrativi: nel primo caso l’ambientazione era il bosco, nel secondo lo spazio. Con uno scarto di appena 8 punti percentuali, era stato espresso maggiore gradimento per la storia ambientata nello spazio. 
La scelta di queste due possibili environment narrativi era il risultato del brainstorming con gli studenti del primo, secondo e terzo anno di corso in game art animation e game design del SAE Institute. Dal punto di vista prettamente creativo, le due ambientazioni garantivano: 

  • Lo sviluppo aperto e replicabile per un numero di “quadri” potenzialmente infinito; 
  • La costruzione di piani di gioco diversi, indipendenti l’uno dall’altro, e dunque chiusi dal punto di vista delle azioni percorribili; 
  • La proposizione di trame inclusive, in quanto fantastiche, e dunque svincolate da sfumature culturali, di genere, di appartenenza etnica. L’inclusione, infatti, era considerata un elemento determinante per l’approvazione del plot narrativo. 

Alla sfida si sono iscritti in 108 partecipanti, con una percentuale più consistente di concorrenti italiani, e una rappresentazione minore degli altri 5 Paesi (Serbia, Romania, Montenegro, Bosnia e Erzegovina, Ungheria); ma cosa ancor più interessante è stata la partecipazione di figure provenienti dal Regno Unito, dalla Grecia e dalla Repubblica Ceca. 

I test che sono stati proposti per lo sviluppo di questo primo concept sono quelli relativi ai predittori della dislessia con riguardo particolare a sei prove: 

  • Riconoscimento della coerenza semantica tra gli oggetti rappresentati; 
  • Riconoscimento di segni e rappresentazioni geometriche semplici tra loro identiche; 
  • Riconoscimento del segno grafico attribuito a una lettera (indipendentemente dalla capacità di saperla denominare); 
  • Riconoscimento del suono iniziale di parole differenti;
  • Ricostruzione della sequenza logica di una storia figurata; 
  • Discriminazione nell’ascolto di parole e non parole con la medesima costruzione fonologica. 

Le squadre avevano l’indicazione di inglobare nel loro quadro di gioco almeno due delle 6 prove indicate, a partire da esempi proposti, sapendo di avere un margine di adattamento narrativo del compito richiesto. 
La sfida, svolta in presenza in sede presso il SAE e su Discord per i partecipanti provenienti dagli altri Paesi, era organizzata in tre momenti: una prima fase prodromica di familiarizzazione con le indicazioni del brief, un momento di lavoro presso la sede del SAE con la possibilità di confrontarsi con la giuria e con altri esperti del mondo game e del mondo della psicologia, ingaggiati come mentor dell’hackathon e invitati a svolgere un lavoro in-group per ciascun team; infine, un momento di sviluppo progettuale di una settimana prima della consegna definitiva.  

Considerazioni a margine di una iniziativa innovativa 

A prescindere dal risultato creativo ottenuto, che costituirà il punto di partenza di progetti futuri di respiro internazionale, l’esperienza dell’hackathon ha messo in evidenza alcuni aspetti interessanti che riguardano il ruolo del gioco nella nostra cultura, prima ancora che nell’esperienza clinica. 
Utilizzare una sfida creativa per la produzione di un gioco che di fatto altro non è che un modo per mettersi alla prova in modo creativo, oltre che sicuro, ha dato prova dei vantaggi di questa scelta. Potremmo definirla una meta-esperienza: un gioco su un gioco che è divenuto il terreno di incontro di prospettive disciplinari differenti, non tutte particolarmente familiarizzate a questo tipo di linguaggio. 
Il gioco – nel nostro caso digitale – ha dimostrato di essere un ottimo spazio per la relazione, anche professionale e creativa. E ha anche confermato che per i progetti di domani, di quello molto prossimo, non futuribile, occorre multidisciplinarietà: non possiamo rimanere nel nostro orticello di competenza ma dobbiamo avere il coraggio e la curiosità di lasciarci contaminare da altri ambiti. Il rischio è quello di procedere su binari paralleli che non si incontrano mai e di arrivare al risultato in tempi molto più lunghi. 
La scelta del frame ludico ha consentito anche di dettare tempi stretti e di coinvolgere molte figure junior, forse meno competenti su alcuni aspetti, ma invece totalmente immersi nelle logiche videoludiche di cui si chiedeva la messa a terra dentro la cornice complessa dello screening per la dislessia in fase pre-scolare. 
La scelta della modalità ibrida ha consentito il coinvolgimento di studenti e professionisti di diverse parti d’Europa: obiettivo dei fondi CEI è quello di favorire lo scambio di conoscenze e la circolazione delle stesse al di là dei confini. #Playseriously ha rispettato in pieno questo mandato e ne ha dimostrato la ricchezza. 
Allo stesso tempo ha confermato che multidisciplinarietà e multiculturalità sono due prospettive che si sposano bene nel gioco digitale, per le sue stesse caratteristiche strutturali e ambientali. 
Il gioco ha dimostrato di essere non solo uno spazio valido per la relazione ma il luogo – virtuale – per eccellenza nell’incontro con gli altri, superando le barriere linguistiche in virtù di uno slang professionale che è trasversale, di un modo di fare esperienza che appartiene al gioco e ha basi psico-socio-antropologiche universali. 
L’hackathon ha visto la registrazione di più di 100 partecipanti, superando le aspettative alla luce anche di un periodo promozionale ridotto e del focus su un tipo di gioco particolare: l’applied game.
Questo ci porta a un’ultima considerazione conclusiva: nel mondo dei professionisti e degli appassionati di videogame è sempre più forte il desiderio di riscatto e di emancipazione da un immaginario purtroppo comune, soprattutto in Italia, che vede nel gioco una pura occasione di intrattenimento fine a sé stessa e trascura le potenzialità del gioco elettronico come forma di crescita educativa, motoria, relazionale e psicologica (tra gli altri Tribordi, Argenton, 2013). 
Oggi i nuovi trend sulla gamification (Viola, Cassone, 2018) ci dicono che le cose stanno cambiando: forse al momento più per ragioni di moda che di vera appropriazione dei codici ludici, si tende a inserire la parola “game” un po’ ovunque. La realtà è che i progetti che integrano a pieno e in modo consapevole il gioco nella cultura, nell’educazione, nella formazione riscuotono successo e dimostrano le potenzialità di questo contesto relazionale: nuovo nella sua dimensione digitale, ma al tempo stesso iscritto nel nostro codice genetico da sempre, per ciò che concerne le pratiche e gli effetti. 
Dunque possiamo concludere che questa esperienza conferma che il gioco può essere ovunque, anche nel lavoro riabilitativo e diagnostico. 

Bibliografia

  • Huizinga,J. (1955). Homoludens. A study of the playelement in culture. Boston: Beacon Press. 
  • Madigan J. (2018) Getting Gamers. The psychology of videogames and the impact on the people who play them. NY: Rowman & Littlefield.
  • Schmidt R., Emmerich K., Schmidt. B. (2015), Applied Games – In Search of a New Definition. 14th International Conference on Entertainment Computing (ICEC), Sep 2015, Trondheim, Norway. pp. 100-111.
  • Thompson J.M., Foldnes N., Uppstad H. (2020), Can children's instructional gameplay activity be used as a predictive indicator of reading skills? In Learning and Instruction, (68) 2020, p.1-9.
  • Triborti R., Argenton L. (2013). Psicologia dei videogiochi. Come i mondi virtuali influenzano mente e comportamento. Milano: Apogeo.
  • Viola F., Cassone V.I. (2018), L’arte del coinvolgimento. Emozioni e stimoli per cambiare il mondo, Hoepli: Milano.  
  • Winnicott D.W. (1984), Gioco e realtà, Mondadori: Milano [ed.2020].