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numero 108 - gennaio 2024

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Occupational Stress - La maschera della salute

Occupational Stress - La maschera della salute

9781613345085_0_536_0_75 (1).jpg Peter Y. Chen
Occupational Stress
Hogrefe, 2024, pp. IX+88
$ 23,99 

Nell’ambito della serie Advances in Psychotherapy – Evidence-Based Practice, diretta da Danny Wedding, professore emerito presso l’University of Missouri in Saint Louis, già direttore del Missouri Institute of Mental Health, esce questo agile volume (il numero 51) dedicato a uno degli aspetti più inquietanti, e sempre attuali, del nostro mondo del lavoro: lo stress occupazionale, inteso naturalmente nella direzione del distress.
Il libro prende le mosse da alcune recenti ricerche internazionali che indicano la diffusione dello stress e delle sue conseguenze nel mondo del lavoro di oggi, soffermandosi sugli incidenti che questa condizione può favorire e, in generale, sul malessere individuale e sociale che ne deriva. La preoccupazione di descrivere con minuzia di particolari le condizioni stressanti si associa in queste pagine all’attenzione agli aspetti etici degli interventi professionali che potrebbero ridurre l’impatto negativo dello stress sulle persone. Ma ancor più importante è, naturalmente, l’insieme delle considerazioni che sono indirizzate alla prevenzione del fenomeno e i suggerimenti che l’autore offre particolarmente nell’ultimo capitolo (ma molti consigli si possono leggere, tra le righe, in tutte le pagine, osservando ad esempio i risultati di ricerche condotte negli ambienti di lavoro e la miriade di conseguenze che lo stress introduce nella vita delle persone).
Per rispondere alla domanda (una delle tante che l’autore pone) su come aiutare gli hardworking people si passano rapidamente in rassegna alcune altre forme di violenza nel mondo del lavoro, ricordando, ad esempio, che un fenomeno estremo come il karoshi, ancora oggi diffuso, è stato individuato per la prima volta nel lontano 1969.
Dopo aver definito concetti e termini – è qui ripresa una definizione dello stress occupazionale del 1976 che vede il fenomeno come l’interazione tra fattori legati al lavoro con le normali occupazioni del soggetto che forzano quest’ultimo a deviare dal proprio normale funzionamento – si passa a considerare i numerosi job stressors. Questi sono ben differenziati (ad esempio, mi sembra molto utile la differenziazione tra fattori acuti e cronici, acuti e sequenziali) collegando i job stressors con il burnout e altri fenomeni (come lo strain) e analizzando nel dettaglio le conseguenze dello stress, non solo sull’individuo ma anche, ad esempio, sulla famiglia e sulla vita di relazione.
Il capitolo dedicato alle teorie ha il pregio di riassumere in poche pagine i nuclei centrali delle diverse prospettive ma lascia senza dubbio perplessi considerare queste idee o ipotesi delle teorie… Ad esempio, la cosiddetta Role Stress Theory postula semplicemente che lo stress si attiva nel momento in cui una persona deve svolgere più attività diverse, soprattutto se queste sono poco definite, ambigue, tra loro conflittuali, o richiedenti un particolare sforzo. Più che una teoria per spiegare lo stress si tratta di una normale condizione e di una evidente constatazione che salta agli occhi di chiunque abbia esperienza concreta degli ambienti di lavoro di oggi, soprattutto di ambienti competitivi in organizzazioni orientate al mercato.
Il terzo capitolo prende in esame i job stressors nello specifico, così come sono stati studiati in letteratura e così come sono stati oggetto delle meta-analisi: qui mi sembrano interessanti tra altri fattori, (come il conflitto tra le richieste della famiglia e quelle del lavoro, o la richiesta di svolgere compiti non legittimi) la mancanza di controllo sul proprio ruolo e il restringimento delle autonomie operative – qualcosa che riporta immediatamente agli stili di leadership autoritari, ancora oggi così diffusi in certe realtà. Stili che in parte sono richiamati nel quarto ed ultimo capitolo dedicato agli interventi in chiave preventiva e, direi, soprattutto proattiva. Differenziando i diversi livelli di prevenzione (primaria, secondaria e terziaria) e indicando anche misure di vero e proprio recupero psicoterapeutico nell’ambito degli interventi terziari al fine di sostenere soggetti traumatizzati, l’autore richiama alcune note modalità di gestione dei gruppi orientate a incrementare la partecipazione attiva delle persone. Un tema-problema che si riscontra anche nelle occasioni di formazione verso le quali, primariamente, le persone dovrebbero sperimentare fiducia e motivazione ma – come ben sappiamo – non sempre è così, e soprattutto non è così negli ambienti di lavoro disagiati. È quindi sottolineata l’importanza del ruolo attivo dei superiori e anche la necessità di limitare al massimo gli stili di leadership abusivi e abrasivi. In altre parole, si sottolinea qui un fattore cruciale per ogni intervento di cambiamento e miglioramento delle condizioni di lavoro, e cioè che la gerarchia, il management e i vertici devono essere coinvolti e devono – prima di chiunque altro, loro stessi – essere convinti di ciò che si va facendo e, spesso, dell’urgenza di intervenire.
Il testo si chiude con delle ricche indicazioni bibliografiche suddivise in due sezioni e una Appendice, Tools and Resources, costituita da tre contributi: Self-Report Outcome Measures, Self-Report Resource Measures, e Self-Report Job Stressor Measure – da notare che accedendo al sito Hogrefe con un codice speciale è possibile scaricare questi ed altri materiali che integrano i contenuti del testo. Un testo sintetico ma senza dubbio ricco di spunti, scritto da una persona che si occupa dell’argomento dagli Anni Novanta (con un taglio squisitamente di ricerca).
Laureato nel 1991, Peter Y. Chen è professore di Psicologia alla Auburn University, fellow della Society for Industrial and Organizational Psychology e, in anni trascorsi è stato editor del Journal of Occupational Health Psychology, e past president della Society for Occupational Health Psychology.
Ha pubblicato soprattutto articoli di ricerca, dedicandosi ai processi di cambiamento nel lavoro visti a livello individuale, organizzativo e industriale, con lo scopo di facilitare la costruzione di un ambiente di lavoro salutare e salubre.

 

cleckleyxweb (1).jpg Hervey Cleckley
La maschera della salute
Alpes, 2023, pp. XXXVIII+367
€ 29,00

La traduzione italiana di questo classico testo sulla psicopatia appare particolarmente meritevole. 
Venuto alla luce nel lontano 1941 questo grande classico della psicopatologia è giunto fino alla quinta edizione, questa che viene qui presentata, introdotta e commentata da un ricco parterre di esperti.
Il testo si apre con la Prefazione alla quinta edizione di Hervey Milton Cleckley a cui segue la Prefazione che comparve nel 1941 per la prima edizione.
Isabella Merzagora, professoressa ordinaria di Criminologia presso l’Università degli Studi di Milano, firma l’ampia Prefazione scritta appositamente per questa edizione italiana intitolata Imbecillità morale e imbecillità sociale, un contributo che fa riflettere e che si integra molto bene con la triplice Prefazione all’edizione italiana costituita da tre contributi a firma dei tre curatori: Cristiano Barbieri, Luigi Janiri e Alberto Passerini. Chiude la parte che precede il testo di Cleckley la Introduzione all’edizione italiana di Cesare Maffei, professore emerito di Psicologia Clinica presso l’Università Vita-Salute San Raffaele.
Con il sottotitolo Un tentativo di chiarire alcune questioni sulla personalità psicopatica si apre dunque  il lavoro di Hervey Milton Cleckley, sottotitolo che indica immediatamente almeno tre punti particolari dell’argomento preso in esame: infatti, l’autore ci tiene a affermare che si tratta di “un tentativo”, indirizzato a riflettere su “alcune questioni” (non volendo dare l’impressione di pretendere di dire l’ultima parola su un argomento così spinoso), il tutto indirizzato alla “personalità” psicopatica: quindi non a tratti, comportamenti, stili, bensì all’insieme della persona-personalità. Ma il sottotitolo in lingua inglese indica anche un quarto punto: An Attempt to Clarify some Iusses about the so-called Psychopatic Personality. L’attenzione è su quel so-called, “cosiddetta” personalità psicopatica, ed è un peccato che questo sottotitolo non sia rimasto nella versione integrale in italiano.
Del resto, va anche notato che Cleckley non ha mai cambiato titolo e sottotitolo del suo lavoro da quando è apparso per la prima volta nel 1941 fino all’ultima edizione: una scelta anch’essa indicativa.
Uno sguardo alla vita e alle opere di Hervey Milton Cleckley può essere utile per inquadrare questo lavoro che, senza alcun dubbio, va storicizzato e collocato nel tempo in cui fu pubblicata la quinta edizione, cioè il 1976. Nato il 7 settembre 1903 nel sud-est degli USA, Cleckley ha conseguito diversi titoli accademici, specializzandosi in psichiatria e lavorando per anni presso la VA, la Veteran Administration. Docente, e poi primario di neurologia e psichiatria, ha sviluppato una grande esperienza in diversi contesti ospedalieri e universitari, svolgendo incarichi direzionali; oltre alla psicopatia si è occupato delle sindromi dissociative, un interesse forse maturato anche in base alla sua esperienza nell’ambito militare. È scomparso il 28 gennaio del 1984.
Il libro di Cleckley può essere letto come una grande e articolata narrazione sulla psicopatia, un testo in cui si alternano spazi dedicati all’illustrazione di casi clinici e di emblematiche tipologie di soggetti psicopatici (tra cui lo psichiatra psicopatico) ad altri in cui si riflette su questa dimensione, definita nel tempo con parole diverse e spesso stravaganti, ad indicare la difficoltà di coglierla nella sua essenza ma anche di differenziarla da altre limitrofe. La stessa psicopatia è stata declinata al suo interno in vari modi distinguendo, ad esempio, gli psicopatici criminali dagli psicopatici di successo.
Come hanno scritto William e Joan McCord nel loro testo molto interessante del 1964 Lo psicopatico. Saggio sulla mente criminale (traduzione italiana di Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1970), commentando il fatto che il concetto di psicopatia veniva esteso a una gran quantità di situazioni, “Hervey Cleckley cercò di limitarlo. Il suo libro, The Mask of Sanity, scritto nel 1941, produsse la descrizione clinica più completa di quel decennio… Cleckley asserì che si potevano trovare gli psicopatici non solo nelle prigioni ma anche nelle posizioni sociali più rispettabili: dottori, avvocati, politici e persino psichiatri” (p. 41-42). E Robert Hare, nel suo classico lavoro, annota: “Cleckley richiamò l’attenzione su quello che riconosceva come un problema sociale terribile, ma ignorato… The Mask of Sanity ha fortemente influenzato i ricercatori negli Stati Uniti e in Canada, e rappresenta il riferimento clinico per la gran parte della ricerca scientifica sulla psicopatia condotta negli ultimi venticinque anni” (R. D. Hare, 1993, La psicopatia. Valutazione diagnostica e ricerca empirica. Tr. it.: Astrolabio, Roma, 2099, pp. 42 e 44).
Ho qui davanti a me la terza edizione in lingua inglese di The Mask of Sanity e devo dire che, confrontando questa edizione del 1955 con la quinta uscita ventun anni dopo, la struttura del testo è rimasta pressoché identica ma il contenuto è stato rivisto ed ampliato (per fare un solo esempio: sono stati aggiunti alcuni casi clinici). Si tratta di un lavoro di grande spessore che chiunque si occupi di psicopatologia, in ambito clinico – ma anche sociale e delle organizzazioni, per non dire nell’ambito della psicologia applicata alla politica e allo studio dei grandi leader internazionali – non può ignorare. E si deve anche rimarcare che i saggi introduttivi scritti per questa traduzione italiana valgono, da soli, un piccolo trattato sulla psicopatia: assolutamente da leggere con molta attenzione!
Rimane il fatto che sono le vittime degli psicopatici a richiedere aiuto, un po’ come accade alle vittime di altre tipologie altamente problematiche ormai ampiamente diffuse nella nostra società, ed è inquietante che il lavoro di Cleckley termini con la Parte II della Quarta Sezione dal titolo Che cosa si può fare? a cui fa eco il testo sopra citato di Robert Hare che titola gli ultimi due capitoli Si può fare qualcosa? e Guida alla sopravvivenza