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numero 64 - febbraio 2019

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Lo psicologo in rete, fra pregiudizi, marketing e promozione sociale

Lo psicologo in rete, fra pregiudizi, marketing e promozione sociale

Il 13 novembre 2018 è stata pubblicata sul sito Hafricah.Net - Tra psicologia e neuroscienza un’interessante intervista alla collega Paola Serio che, in vista del convegno “La Psicologia del Terzo Millennio” tenutosi a Firenze il 24 novembre scorso, ha parlato del ruolo dello psicologo all’interno  dei social network. Un’intervista che fa riflettere sul ruolo del professionista in rete e su temi importanti quando parliamo dello psicologo, il cui lavoro è particolarmente centrato su elementi di processo oltreché di contenuto.
Emerge in questa intervista una certa autoreferenzialità e un posizionamento non sempre efficaci del professionista psicologo a conferma di una mia sensazione, sia da fruitore che da professionista che con i social network ci lavora: ovvero che allo psicologo che si posiziona professionalmente sui social spesso manchi una corretta analisi dei bisogni e della domanda finendo con il potenziare una visione dicotomica della questione.
Esistono infatti due principali modalità di approccio professionale al mezzo virtuale. Il primo rappresenta coloro che lo “odiano” e che lo utilizzano con un certo sospetto e lo usano perché si “deve usare”, finendo per averci un approccio poco continuativo, non targettizzato e pensato per il suo fine. Lo psicologo non può permettersi di snobbare e non approfondire un mezzo così presente nella vita delle persone. Utilizzarlo non vuol dire colludere con certe problematiche e dipendenze che riguardano certamente un certo cluster di persone, ma significa conoscere le sue modalità di utilizzo e comprenderne limiti e potenzialità. Ciò significa avvicinarvisi senza connotare di negatività (o di positività) in termini assoluti questo mezzo, con spirito critico ma senza pregiudizi.
Oggi la realtà virtuale tra l’altro permette una molteplicità di utilizzi professionali per lo psicologo, la ricerca attuale è infatti feconda di studi applicativi relativi alle nuove tecnologie in svariati ambiti, da quello clinico, a quello aziendale, ai contesti evolutivi e a quelli sperimentali e cognitivi. Quindi approfondiamo il suo utilizzo in maniera scevra da pregiudizi senza pensare che siccome ci siamo formati sull’importanza del setting tradizionale questo non possa essere passibile di modifiche, necessarie nel momento in cui cambia il contesto intorno a noi, le norme sociali e il valore che le persone danno agli strumenti usati. Venti anni fa il problema maggiore era “Posso rispondere al paziente che mi ha mandato un sms?”, oggi il problema è “Oddio il paziente mi ha chiesto l’amicizia su FB!”, oppure “Il paziente mi ha scritto su Whatsapp, cosa faccio?”. Quello che prima era il problema estremo, l’SMS, oggi è diventato il problema minore in quanto le modalità di “invasione” della zona protetta del professionista sono maggiori e i limiti sempre più sfumati: bisognerà quindi sempre di più fare i conti con una realtà in continuo mutamento. In un’era densa di cambiamenti e di relazioni liquide come questa anche il setting per forza di cose è destinato a subire dei cambiamenti, e lo psicologo si trova costretto a mutare le sue modalità relazionali in base al contesto. Snobbare un cambiamento solo per un anacronistico attaccamento al passato equivale a precludersi una possibilità di crescita ed evoluzione come professionisti e una capacità di comprensione dell’utenza a 360 gradi.
Il secondo tipo di approccio al mezzo virtuale è rappresentato da coloro che invece questo mezzo lo usano spesso in modo molto “easy”, invitando a mettere “Mi piace” alla propria pagina professionale e ai propri eventi professionali rivolti ad utenti, soprattutto colleghi (che raramente usufruiranno dei servizi), scrivendo articoli e post con un linguaggio pesantemente tecnico e lontano dal proprio target di riferimento (pazienti? clienti? aziende?) finendo quindi per non attrarre o incuriosire i potenziali fruitori del servizio proposto. Vediamo spesso colleghi che in maniera uniforme pubblicano frasi fatte, citazioni di autori, magari, nella migliore delle ipotesi, coerenti con problematiche ed eventi attuali, oppure scrivendo proprie citazioni fra virgolette e firmandosi come dei novelli William Blake ma con esiti non ugualmente brillanti, nella peggiore delle ipotesi.
Questo accade perché alcuni colleghi, nella paura di svilire la professione e la propria professionalità, finiscono per scrivere su Facebook come se scrivessero per Lancet o riviste raccolte su Pubmed.
Dobbiamo sempre tenere presente il mezzo sul quale scriviamo e pubblichiamo. Facebook? Instagram? LinkedIn? Youtube? Ogni mezzo social ha un suo target di riferimento, un suo registro linguistico, dei modi di utilizzo che è necessario conoscere per non correre il rischio di non incontrare il nostro target di riferimento. Abbiamo la fortuna di trattare argomenti che riguardano l’uomo, la società, il mutamento sociale, temi che di per sé interessano l’uomo comune e i nostri possibili clienti/pazienti. Abbiamo un vantaggio rispetto a chi vende ad esempio turbine a gas e che trova l’interesse esclusivamente di chi compra turbine a gas, noi parliamo della vita e dell’essere umano, di argomenti che attraversano la vita di tutti i giorni. Possiamo facilmente agganciare l’interesse ma per farlo dobbiamo scendere da un piedistallo fatto di nozioni e autoreferenzialità e parlare alle persone usando il loro linguaggio, sedendoci accanto a loro e non di fronte o guardandoli dall’alto della nostra preparazione. Ognuno ha il suo stile narrativo ma è necessario tarare il nostro linguaggio adeguandolo al nostro target di riferimento e cercare di divulgare scientificamente senza scadere nel tecnicismo fine a se stesso. Ricordiamoci sempre che semplicità è sinonimo di chiarezza espositiva e non di banalizzazione.

Il ruolo sociale dello psicologo

Un altro argomento a me molto caro è quello della portata del ruolo sociale dello psicologo. Fra i professionisti è molto dibattuto il tema della presenza sui social del professionista psicologo che si esprime e si interfaccia con i cittadini nelle pagine generaliste e nei gruppi dei social network. Lo psicologo può esprimersi? Può confrontarsi con i cittadini su vari temi politici, sociali ed etici? Quando lo fa in che modo il suo ruolo di cittadino dissona dal suo ruolo di professionista della salute anche quando si presenta con il suo nome e non con il suo ruolo?
La società liquida in cui siamo immersi, l’interconnessione, l’essere tutti nella stessa piazza virtuale annullando le distanze, pone delle problematiche in più rispetto a quanto previsto dal nostro Codice Deontologico, scritto in anni in cui l’interconnessione di oggi non era neanche immaginabile.
Ogni professionista che con il proprio account privato si esprime, scrive opinioni e propri stati d’animo, li dà in pasto potenzialmente a centinaia di persone; ogni professionista che entra in un gruppo Facebook entra in un sistema di relazioni, in un “via vai” di discussioni e temi, da quelli più cittadini a quelli maggiormente sociali, politici ed etici. Un tempo le discussioni con i professionisti erano possibili solo in incontri pubblici, convegni, seminari. Oggi chiunque può entrare in una “piazza virtuale” esprimersi e dire la propria davanti a centinaia di persone, chiunque può in teoria contattare un professionista in rete, trovarlo in qualche bacheca o gruppo Facebook ed interfacciarsi con lui o leggere quello che scrive. Oggi basta davvero una rapida ricerca su Google per informarsi su un professionista, ovviamente se si presenta con il suo nome reale sui social. Sono temi interessanti su cui spesso ci indaghiamo ma che altrettanto spesso agiamo con estrema leggerezza. Mi capita di frequentare su Facebook gruppi cittadini, gruppi di genitori, gruppi generalisti su vari temi che leggo sia per interesse personale che professionale e noto spesso colleghi che con toni semplici e a volte un po’ “esuberanti” si lasciano coinvolgere in dibattiti con linguaggio e modalità poco consone ad una professione ordinistica, a volte per ingenuità, altre volte volutamente con la scusa del diritto di espressione. La nostra è una professione estremamente delicata, a differenza di altre professioni entra in gioco tutto un sistema di valori, attese, percezioni da parte dell’utenza, che fa sì che l’opinione dello psicologo su certi temi abbia una certa valenza e sia portatrice di una complessità differente.
Lo psicologo per questo avrebbe una grande possibilità, quella di dare una lettura trasversale agli eventi che accadono nel mondo socio-economico e politico. Potrebbe avere il compito di gettare una luce laddove il buio del pregiudizio, degli stereotipi, della rabbia e della disillusione oscura le menti. Potrebbe alzare l’asticella del dibattito utilizzando le armi del non giudizio e dell’ascolto, riformulando nei dibattiti questioni su cui una certa animosità e coinvolgimento emotivo non permettono di essere chiarificate oggettivamente. Spesso invece il cittadino psicologo partecipa a questi “sanguinosi” dibattiti colludendo con le persone entrandoci in simmetria, mettendosi allo stesso livello del dibattito e distruggendo qualsiasi possibilità di un pensiero divergente che lui stesso invece potrebbe favorire per competenze e formazione.
Oltre alle questioni deontologiche di affermazioni spesso non consone al suo ruolo, si perde l’occasione come professionista della relazione di favorire un piccolo cambiamento nella capacità di comprensione e di ragionamento nelle persone. Oltre alle modalità comunicative non sempre adeguate, una modalità “easy” quando offensiva va a danno anche del professionista. Voi andreste da uno psicologo che avete letto su Facebook esprimersi con toni aggressivi e giudicanti riferiti ad immigrati, omosessuali ecc? O che semplicemente si lascia andare a frasi con toni da tifo da stadio, seppur non direttamente offensivi? Io no. Personalmente quando vado da un professionista, una ricerca su Google e su Facebook per sapere chi ho di fronte la faccio sempre, e come la faccio io sicuramente la fanno tante altre persone. Forse non interessa se il proprio panettiere è razzista o omofobo, oppure se trovate una sua foto in rete in atteggiamenti poco consoni e discutibili, alla fine deve solo fare bene il pane e venderlo, ma che il mio psicologo non abbia idee di un certo tipo e si ponga in modo professionale lo considero un valore e un requisito imprescindibile, e non parlo ovviamente della foto pubblicata con il proprio account privato di una serata in pizzeria con gli amici.
Quindi facciamo attenzione a come ci esprimiamo sui social network perché tutto ciò che scriviamo e commentiamo lo diamo in pasto a centinaia e potenzialmente migliaia di persone, le stesse che un giorno potrebbero sceglierci come professionista di riferimento, come collega per un progetto, come dipendente per una assunzione, le stesse che leggendo quello che scriviamo potrebbero dare a quanto letto un valore diverso in quanto espresso da un professionista della salute.
Erroneamente si tende ad esprimersi su Facebook come in un piccolo gruppo di amici, dove le possibilità di essere ascoltati all’esterno sono pochissime, non considerando il fatto di essere in pubblico con la possibilità di essere “screenshottati” o registrati nella mente di chi ci legge. Sui social network è necessario quindi fare la massima attenzione e, se amiamo il dibattito e le discussioni su vari temi sociali, sfruttare l’occasione per fare della buona promozione sociale da cittadini ma soprattutto da psicologi. Se invece vogliamo sentirci liberi di esprimerci anche al di là del codice deontologico, di pubblicare nostre foto private in modo leggero e senza preoccupazione alcuna, non rimane che accettare il rischio ed assumersene la responsabilità oppure limitare a pochi intimi sui social, e soprattutto dal vivo le nostre espressioni.