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numero 64 - febbraio 2019

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L’Addictive Behavior Questionnaire (ABQ): un nuovo strumento di misura per la valutazione delle addiction

L’Addictive Behavior Questionnaire (ABQ): un nuovo strumento di misura per la valutazione delle addiction

Nella quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5; APA, 2013), il classico costrutto di dipendenza non viene più considerato come quadro diagnostico per riferirsi a problemi correlati all’uso ricorsivo e incontrollabile di una particolare sostanza o di un comportamento. Questa rivisitazione terminologica testimonia la sensibilità della task force del DSM-5 per garantire uniformità a un costrutto, quello di addiction, che oggi include in un’unica classe diagnostica sindromi cliniche apparentemente distinte, quali ad esempio l’uso di sostanze o il disturbo da gioco d’azzardo (Caretti et al., 2016). Similmente, nell’ambito della classe diagnostica, termini quali abuso e dipendenza, profondamente radicati nella tradizione clinica, confluiscono oggi nell’unico quadro dei disturbi correlati a sostanze e dei disturbi da addiction per“descrivere l’ampia gamma del disturbo, da una forma lieve a uno stato grave con ricadute croniche. Alcuni clinici sceglieranno di utilizzare la parola dipendenza per descrivere manifestazioni più estreme, ma la parola è omessa nella terminologia diagnostica ufficiale del DSM-5 a causa della sua incerta definizione e della sua connotazione potenzialmente negativa” (p. 568). Ragione di questa scelta è probabilmente la necessità di evidenziare i ruoli del craving e della compulsione, non limitando più la diagnosi alla sola presenza dei sintomi della tolleranza e dell’astinenza. La tolleranza, ovvero la ricerca di aumentate dosi al fine di ottenere l’effetto desiderato, varia infatti notevolmente da individuo a individuo, in ragione, ad esempio, delle diverse caratteristiche fisiche che possono rendere un soggetto più sensibile di un altro. Per quanto concerne i sintomi dell’astinenza, essi variano in rapporto alle classi, ed è importante che il clinico non costruisca la propria diagnosi considerando esclusivamente i sintomi di tolleranza o di astinenza per un disturbo da uso di sostanze, soprattutto quando tali sintomi si presentano durante appropriati trattamenti con farmaci prescritti (per esempio, oppiacei analgesici, sedativi, stimolanti) (Caretti et al., 2016). 
È evidente quindi che nell'ambito degli addictive behaviors assume un ruolo fondamentale il concetto di craving. Per craving si intende la condizione sindromica di base delle addiction, caratterizzata da un’urgenza appetitiva di ricerca di piacere e una messa in atto irriducibile, anche a svantaggio della stessa volontà del soggetto; ovvero una “fame” viscerale e travolgente che sottovaluta il rischio e disconosce le possibili conseguenze negative (Caretti, Craparo e Schimmenti, 2010).
Il concetto di craving si pone in stretta relazione a quello di piacere, ovvero ad una ricerca morbosa del piacere (Di Chiara, 2010), che, da un punto di vista neurobiologico, non riguarda “tanto il piacere primario, consumatorio, ma il piacere appetitivo, quello che si associa all’eccitazione comportamentale e che è in grado di facilitare l’apprendimento incentivo pavloviano, il piacere mediato dalla stimolazione della trasmissione dopaminergica nella “shell del nucleo accumbens”. Nelle dipendenze patologiche, lo stato di piacere appetitivo associato all’eccitazione incentiva (euforia) prodotta dal farmaco gioca probabilmente un ruolo di rinforzo. Da ciò risulta un’abnorme, compulsiva capacità di stimoli condizionati dalle droghe di motivare il comportamento (craving).
Su queste basi partono le considerazioni per la costruzione di un nuovo strumento di misura per la valutazione delle addiction, che sia in grado di coniugare i recenti cambiamenti del DSM-5 nella diagnosi delle addiction, l’esperienza clinica e il rigore psicometrico.

Modello teorico - ABQ

Il modello teorico dell’Addictive Behavior Questionnaire (ABQ) interpreta la messa in atto impulsiva e compulsiva di comportamenti di addiction come un’esperienza dalla forte componente sensoriale, che consente – ovviamente in modo improprio – una qualche possibilità di stabilizzare stati affettivi profondamente dolorosi e disregolati, attraverso la reiterazione ossessiva del comportamento di addiction (Caretti, Craparo e Schimmenti, 2010).
Per l’individuo dipendente le condotte di dipendenza rappresentano, secondo questa prospettiva, un rifugio mentale per sottrarsi all’imprevedibilità delle vicende e delle relazioni umane, e richiudersi all’interno di esperienze contrassegnate dalla ricerca di uno stato di piacere che sia in grado di antagonizzare il dolore psichico. Lo spettro ossessivo-impulsivo-compulsivo si pone alla base del comportamento di dipendenza e del craving (ovvero del desiderio incoercibile e incontrollabile) ad esso sottostante. A partire dall’analisi della natura psicobiologica dell’impulsività, è infatti possibile delineare i meccanismi che sottostanno al carving (Caretti et al., 2016).
Gli studi condotti nell’ambito delle neuroscienze ci spiegano che esiste una possibile vulnerabilità rispetto all’assunzione di condotte a rischio, a causa dell’incompleta maturazione dei processi inibitori regolati dalla corteccia prefrontale, implicati nel controllo degli impulsi; questa vulnerabilità può interagire con altri fattori genetici ed ambientali (Caretti et al., 2016).
L’ambiente di sviluppo nell'infanzia e nell'adolescenza, quindi, potrà risultare un fattore protettivo; infatti, come ci indicano gli studi sulla resilienza (Bonanno, 2004), contesti socio-relazionali caratterizzati da affetto, condivisione e prosocialità riducono la probabilità di sviluppare condotte a rischio e disturbi psicologici. Al contrario, quando l’ambiente è esso stesso patologico, caratterizzato cioè da fenomeni di incuria, violenza e diffusi comportamenti antisociali, moltiplica la vulnerabilità alla dipendenza (cfr., Caretti et al., 2016).
Gli abusi, la trascuratezza emotiva e i disturbi dell’attaccamento vissuti durante l’infanzia generano quindi un vero e proprio deficit psicobiologico: le emozioni sottese a vicende dolorose, luttuose, stressanti, non saranno adeguatamente elaborate ed integrate, e non potranno neanche essere contrastate attraverso la ricerca della vicinanza protettiva e di stati affettivi positivi. Esse potranno quindi indurre l’individuo all’uso compulsivo di un oggetto-droga, che permetta il ritiro difensivo in uno stato mentale dissociato (ovvero separato) dalla coscienza ordinaria (cfr. Caretti et al., 2016). Questo ritiro, di cui è evidente la natura dissociativa proprio in virtù del fatto che esso consente di allontanare dalla consapevolezza emozioni e stati del Sé vissuti come traumatici ed intollerabili, però, indebolisce ulteriormente la capacità di regolazione affettiva, alimentando invece il bisogno impulsivo di mettere in atto i comportamenti di dipendenza, per mezzo dei quali poter riesperire la sensazione di piacere ed il vissuto di riduzione dell’intensità di stati disforici (cfr. Caretti et al., 2016). Si viene a creare così un circolo vizioso in cui la memoria della produzione di piacere (egosintonica) e la ritualizzazione compulsiva volta alla riduzione del dolore (egodistonica), alimentano pensieri e fantasie ossessive di ripetere l’esperienze additiva; l’individuo vivrà così un desiderio incoercibile – poiché non elaborabile – che produrrà nuovamente l’impulso a compiere l’azione, nonostante gli effetti negativi che tale azione produce sulla sua salute psicofisica (cfr. Caretti et al., 2016). Alcuni studi hanno evidenziato il profilo di personalità in soggetti con addiction confermando parzialmente questi aspetti (Gori et al., 2014; Gori et al., 2016).
Questa ritualizzazione compulsiva sarebbe alimentata da un’urgenza appetitiva di ricerca di piacere, ovvero una “fame” viscerale e travolgente che sottovaluta il rischio e disconosce le possibili conseguenze negative (Caretti, Craparo e Schimmenti, 2010): il carving.
Il craving assume nelle diverse addiction le caratteristiche dell’impellenza e della compulsività, soprattutto in presenza di specifici stimoli interni o esterni, e la forte attrazione, impulsiva e compulsiva, verso il comportamento di dipendenza va ben al di là dell’oggetto-droga di per sé (Schimmenti, 2008; Schimmenti e Caretti, 2010). Il craving tende infatti ad attivarsi in presenza di stimoli ambientali che richiamano l’incontro con l’oggetto-droga, ma anche in risposta ad eventi stressanti o a particolari situazioni emotive. Il ritiro negli stati mentali dissociati del comportamento dipendente, a loro volta, rinforzerebbe ulteriormente il meccanismo del carving (Schimmenti et al., 2017; cfr. Caretti et al., 2016).
Come sostenuto anche da Hollander e colleghi (1996), l’impulsività e la compulsività rappresentano i due estremi di un continuum, nel quale i comportamenti additivi possono oscillare da un rinforzo positivo (di produzione del piacere) ad un rinforzo negativo (di riduzione del dolore).
In questo spettro impulsivo-compulsivo, i disturbi compulsivi (come il disturbo ossessivo-complusivo, l’anoressia nervosa, il disturbo da depersonalizzazione, l’ipocondria, la sindrome di Gilles de la Tourette, il disturbo da dimorfismo corporeo) si caratterizzano per una accentuata ansia anticipatoria e una tendenza ad evitare situazioni di pericolo, laddove i disturbi impulsivi (che includono il cluster B dei disturbi di personalità, i disturbi del controllo degli impulsi, le parafilie) si contraddistinguono per la ricerca del rischio, una scarsa ansia anticipatoria ed una ridotta capacità di evitamento del pericolo. In entrambe le classi di disturbi è comunque possibile riscontrare l’incapacità di ritardare o di inibire la messa in atto di comportamenti ripetitivi, la cui funzione principale è quella di ridurre l’ansia e la disforia (cfr. Caretti et al., 2016).
In linea con la teoria di Hollander e colleghi (1996), Caretti, Craparo e Schimmenti (2008) hanno proposto dei criteri psicodinamici per la diagnosi di dipendenza patologica:  

  1. Ossessività
    a) Pensieri e immagini ricorsivi circa le esperienze di dipendenza o le ideazioni relative alla dipendenza (per esempio, il soggetto è eccessivamente assorbito nel rivivere esperienze di dipendenza passate o nel fantasticare o programmare le esperienze di dipendenza future).
    b) I pensieri e le immagini relativi al comportamento di dipendenza sono egosintonici e sono causa, allo stesso tempo, di ansia e di disagio marcati.
  2. Impulsività
    a) Irrequietezza, ansia, irritabilità o agitazione quando non è possibile mettere in atto il comportamento di dipendenza.
    b) Ricorrente fallimento nel resistere e nel regolare i desideri di dipendenza e gli impulsi a mettere in atto il comportamento di dipendenza.
  3. Compulsività
    a) Comportamenti di dipendenza ripetitivi che la persona si sente obbligata a mettere in atto, anche contro la sua stessa volontà e nonostante le possibili conseguenze negative, come conseguenza delle fantasie di dipendenza ricorrenti e del deficit del controllo degli impulsi.
    b) I comportamenti o le azioni di dipendenza coatti sono volti a evitare o prevenire stati di disagio o per alleviare un umore disforico (per esempio, sentimenti di impotenza, irritabilità, inadeguatezza).

Le tre dimensioni dell’Ossessività, dell’Impulsività e della Compulsività si pongono, secondo gli autori (cfr., Caretti et al., 2016), alla base del craving. Il craving si manifesta infatti con maggiore forza in soggetti con una particolare instabilità emotiva, una scarsa tolleranza alle frustrazioni, un sentimento di inadeguatezza rispetto alle proprie capacità di gestire le problematiche che emergono nelle relazioni interpersonali.
Se consideriamo la dipendenza patologica come un disturbo dello spettro ossessivo-impulsivo-compulsivo che si basa su meccanismi di difesa di natura dissociativa, allora, si può comprendere come non possano essere esclusivamente gli effetti fisiologici generati da una sostanza o da un comportamento a portare all’addiction, in quanto esiste già una condizione psicopatologica a monte, di cui il craving è il naturale epifenomeno (Caretti et al., 2016).
In generale, alla base del craving starebbe proprio il sistema di disregolazione psicobiologica sostenuto da gravi fattori di rischio evolutivo, in gran parte riconducibili alla relazione con le figure di accudimento. Il deficit nelle capacità di regolazione affettiva si connette alla produzione di stati emotivi particolarmente dolorosi e non rappresentabili; le emozioni traumatiche, a loro volta, appaiono strettamente associate al discontrollo degli impulsi, rispetto alla loro regolazione e modulazione (Caretti et al., 2016).
È molto probabile che, all’interno di questo spettro ossessivo-impulsivo-compulsivo, nelle condotte di dipendenza, lo stato mentale disfunzionale del craving possa essere rinforzato sia dalle rappresentazioni positive associate al piacere della dipendenza, sia dalle rappresentazioni negative e dolorose dell’astinenza, ma anche dalle rappresentazioni connesse alla regolazione degli stati interni, ovvero alla possibilità di contrastare le emergenti emozioni dolorose, l’ansia e l’umore disforico, proprio attraverso la messa in atto del comportamento di dipendenza (Caretti et al., 2016; Craparo et al., 2016). Queste riflessioni possono essere utili anche per fornire una maggiore comprensione sulle ragioni per cui gli approcci alla cura delle dipendenze patologiche di tipo esclusivamente rieducativo o farmacologico tendono a risultare generalmente infruttuosi ed inefficaci a lungo termine.
Infatti, le conseguenze negative delle condotte di dipendenza difficilmente potranno essere riconosciute, se non elaborate e mentalizzate dall’individuo attraverso processi d’insight (Gori et al., 2015), e con buona probabilità potranno rimanere in secondo piano rispetto alle funzioni autocurative che il comportamento di dipendenza svolge e che il craving sostiene (Caretti, Craparo e Schimmenti, 2008). Quest’ultima considerazione ci può aiutare ulteriormente a capire perché frequentemente i soggetti dipendenti presentano anche altre diagnosi psichiatriche. Si tratta di un problema che non è esclusivamente legato ai limiti degli attuali sistemi diagnostici: in realtà, il più delle volte la dipendenza patologica è solo la punta di un iceberg rispetto alla condizione psicopatologica dell’individuo (Rigliano, 2004), la cui parte sommersa diviene tanto più grande quanto più si approfondiscono clinicamente il suo funzionamento psichico e la sua esperienza di vita.
La complessità di questo modello di lettura e di comprensione delle addiction ha fornito una motivazione alla ricerca di sistemi di valutazione più efficaci, in grado di considerare le varie sfumature degli addictive behaviors. Ed è così che dopo anni di progettazione e ricerca, grazie alla collaborazione di clinici e ricercatori e con il supporto di FederSerd nasce, all’interno di questo modello teorico-clinico, un nuovo strumento di misura per la valutazione delle addiction e per la formulazione di un piano di trattamento personalizzato: l’Addictive Behavior Questionnaire (ABQ).

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