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numero 101 - novembre 2022

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L'intervista

Intervista a Fabio Celi

Intervista a Fabio Celi

In occasione del prossimo lancio di Leggere per crescere, collana di fiabe dedicata a contenuti di tipo psicologico, abbiamo chiesto a Fabio Celi, curatore e autore dei primi due volumi, di presentarci il progetto.

D. Dopo numerose pubblicazioni “tecniche” dedicate ai professionisti della psicologia, che hanno affiancato e sostenuto la formazione e il lavoro di molti, quale è stata la motivazione che l’ha spinta ad approcciarsi alle fiabe? 

R. Forse il motivo è che invecchiando si rimbambisce e “rimbambire”, etimologicamente, significa ritornare bambini? Non ci sarebbe niente di male, ma se devo cercare una spiegazione più paludata, che in ogni caso ha sempre in un certo modo a che fare con la mia età, è che io appartengo a quella che oggi si chiama prima generazione della psicologia cognitivo-comportamentale, ma che allora si chiamava comportamentismo senza altre specificazioni, perché esisteva solo quello. Piano piano, dapprima cautamente chiamandoli “comportamenti covert”, i comportamentisti ha cominciato a scoprire che esistevano anche i pensieri ed è nata così la seconda generazione dell’approccio cognitivo-comportamentale. Per ultime sono arrivate le emozioni, la scoperta che spesso sono i pensieri a generare le emozioni e che probabilmente la cosa migliore da fare con gli uni e con le altre è smettere di combatterli, smettere di scappare e cominciare ad accettarli e a viverli. In una sintesi molto frettolosa ed imprecisa è questo che mi ha colpito della terza generazione, che ho cominciato a studiare scoprendo che, per aiutare i pazienti, questo approccio fa largo uso, anche con gli adulti, delle metafore. È così che ho pensato: quale migliore metafora che una favola, per un bambino? Ed è così che mi sono messo a scrivere favole.  

D. La collana apre con due titoli, “La radura nel bosco” e “I tre elfi dispettosi”. Ce li racconta?

R. Uno dei punti centrali della psicoterapia cognitivo-comportamentale della terza generazione, quella che prima ho sommariamente descritto come lo smettere di combattere e di scappare, è il tema centrale de “La radura nel bosco”. Una bambina e un bambino, paralizzati dalla paura di allontanarsi dal luogo sicuro della loro casa e della loro famiglia, fanno esperienza, anche se attraverso vie molto diverse, del guardare in faccia le loro paure i loro fantasmi, i draghi che, alla fine, come dice la saggezza popolare del diavolo, non sono così brutti come li si dipinge.
La seconda parla invece della testa di Tommaso abitata da tre elfi dispettosi che rendono molto difficile al bambino stare attento, concentrarsi, riflettere prima di sparare risposte a caso. Questa difficoltà genera molta sofferenza non solo a lui, ma anche alla sua famiglia che deciderà allora di intraprendere un viaggio fino a Golfo Azzurro, dove un vecchio saggio aiuterà Tommaso ad entrare in contatto con le sue risorse di autocontrollo e a prendere a scuola, per la prima volta, una nota positiva sul diario.

D. A chi sono destinate queste fiabe? Come si immagina che vangano utilizzate? 

R. Sono destinate ai bambini, naturalmente, ma non fisserei limiti rigidi di età: direi approssimativamente dai quattro-cinque anni a quasi tutto il periodo della scuola primaria. Si tratta del periodo tipico delle favole e, da momento che di favole appunto stiamo parlando, non mi piacerebbe che venissero “utilizzate”. Mi piacerebbe che il bambino le leggesse, se ne ha voglia e se è capace di farlo, oppure che la sua mamma o il suo papà gliele leggessero, magari nell’ora magica che separa la vita diurna dal sonno e dai sogni. Se poi questa lettura susciterà emozioni, meglio così. Se poi queste emozioni aumenteranno la consapevolezza del bambino del suo mondo interno e lo aiuteranno a riconoscerlo, a dargli un nome, a regolarlo e ad accettarlo meglio ancora. Dico di queste favole quello che i comportamentisti di terza generazione dicono della mindfulness: la mindfulness non è una tecnica di rilassamento; il rilassamento non può essere il suo obiettivo; cercare il rilassamento è il modo migliore per non ottenerlo; forse, con questo atteggiamento di aperta consapevolezza, il rilassamento verrà. Una favola non dovrebbe essere utilizzata per raggiungere obiettivi, ma essere solo l’occasione per sperimentare emozioni.

R. I volumi sono accompagnati da “distruzioni per l’uso”. Che cosa c’è da distruggere secondo lei?

D. Questa domanda è strettamente collegata alla precedente. Per tutti i motivi che ho cercato di illustrare, le istruzioni per l’uso riferite a una favola sono una contraddizione in termini. Hai mai visto un bambino giocare a nascondino? Credi che prima di cominciare abbia letto un manuale? E tu hai letto un manuale di istruzioni la prima volta che hai dato un bacio alla persona che ti agitava il cuore? C’è una sola cosa da fare di un manuale di istruzioni allegato a una favola: prenderlo e farlo i mille pezzi prima di averlo letto. 

D. Che cosa significa per un bambino riconoscere nel personaggio di una storia alcuni dei suoni contenuti e delle sue emozioni?

R. Significa vederle come in uno specchio. Chiunque si sia fatto la barba, o truccato gli occhi, o fatto esercizi di ginnastica in palestra sa quante cose può insegnarci uno specchio, quanta consapevolezza ci può dare. Riconoscere le emozioni nei personaggi di una storia significa imparare a prenderne contatto. Inoltre, sapere che altri, attraversando certe vicende, certe avventure e certi pensieri provano certe emozioni favorisce la così detta validazione, cioè la consapevolezza che non c’è niente di strano, di sbagliato, di malato nel provare certi sentimenti dentro di noi, perché questi sono gli stessi sentimenti che molti altri essere umani – probabilmente – tutti provano talvolta nella loro vita. 

D. In che modo i genitori possono sostenere l’educazione emotiva dei propri figli?

R. Ascoltandoli. Sospendendo il giudizio. Evitando frasi come: “Questa cosa non la voglio nemmeno sentire”, “Questa cosa non la devi nemmeno pensare”, “Non va bene che tu ti arrabbi”. Mostrando ai nostri figli che non siamo capaci di parlare delle nostre emozioni, di dar loro un nome e, riconoscendole e accettandole, di non lasciarci travolgere.
E poi, naturalmente, leggendo loro favole.
Quando un bambino non riesce a staccarsi dalla mamma ed entrare in classe non sta guardando la sua paura e così lascia che sia questa paura a guidare le sue azioni. Quando una bambina picchia il fratellino non è in contatto con la sua rabbia e così questa rabbia non riconosciuta prende il sopravvento.

D. Quale potrebbe essere, a suo avviso, la risposta dei bambini di oggi ad una fiaba? La grande ricchezza di stimoli e la sintonizzazione su contenuti digitali potrebbero essere un deterrente nell’avvicinarsi libri come questi?

R. Purtroppo sì. Sono consapevole del fatto che scrivere favole nel 2022 sia una sfida. Che la concorrenza di Fortnite Minecraft sia spietata. Però, fateci caso. Fino a qualche anno fa i negozi di giocattoli erano praticamente scomparsi dal panorama delle nostre città. Adesso ho la sensazione netta, anche se non ho studiato ricerche di mercato, che stiano rifiorendo. Non so come mai, ma un’ipotesi plausibile è che i bambini, come tutti gli esseri umani, si stanchino di fare sempre le stesse cose. Forse per i bambini di sei o otto anni molti giocattoli sono una novità. Non potrebbe succedere qualcosa di simile anche con un libro di favole?
Naturalmente, perché questo succeda, in casa il papà e la mamma dovrebbero farsi trovare qualche volta con un libro in mano, piuttosto che sempre in ogni momento della giornata, a letto, a tavola e in bagno, con gli occhi fissi sul cellulare.  Naturalmente, se la maestra porta un libro di favole in classe dovrebbe poi evitare di usarlo per fare delle verifiche o per dare dei compiti a casa. Naturalmente, lo psicologo che volesse affiancare un percorso terapeutico con una nostra favola dovrebbe portarla in seduta come una compagna, come un’amica. Lo ripeto: dovrebbe portarla in seduta con la testa sgombra da obiettivi precisi, espliciti e strutturati ma solo per scoprire insieme al suo pazientino cosa può venir fuori da questa lettura. 

D. Quali sono le tematiche che le piacerebbe affrontare in futuro attraverso le fiabe?

R. Anche questa domanda è strettamente collegata alla precedente e alla sintonizzazione delle nuove generazioni sui contenuti digitali perché mi piacerebbe scrivere un nuovo pifferaio di Hamlin, dove il suono del flauto è sostituito dalle sirene dei videogiochi e dei social. Purtroppo, non so se ci riuscirò perché, sebbene io sappia con assoluta certezza di essere bravo come uno dei fratelli Grimm, loro avevano su di me il vantaggio di essere in due, mentre io sono solo.
Scherzo, naturalmente, anche perché spero proprio di non essere solo nell’andare avanti lungo questa avventura editoriale. Mi piacerebbe, attraverso nuove fiabe, affrontare anche i temi legati a mille altre paure, al lutto, alla nascita di un fratellino e alle rivalità con lui, alla ricerca di un amico, alle abitudini alimentari, al coraggio di affrontare le sfide… ma mi piacerebbe soprattutto farlo con l’aiuto di colleghi interessati a condividere questa avventura con me. Altro che fratelli Grimm: loro erano solo in due. Noi potremmo diventare una squadra!