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numero 67 - maggio 2019

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L'intervista

Intervista a Aristide Saggino

Intervista a Aristide Saggino

Abbiamo intervistato il Prof. Aristide Saggino, professore ordinario di Psicometria presso la Scuola di Medicina e Scienze della Salute della Università di Chieti – Pescara e President elect della Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento e Terapia Comportamentale e Cognitiva (AIAMC), in merito alla natura e alle cause del controverso rapporto tra psicologi e psicometria. 

D. Qual è a suo parere la conoscenza e la familiarità che gli psicologi hanno della psicometria?

R. Purtroppo gli psicologi hanno una scarsa familiarità con la psicometria. E se ne rendono conto quando utilizzano i test psicologici, nel senso che in quel momento capiscono che maggiori conoscenze psicometriche li aiuterebbero ad utilizzare al meglio questi strumenti di valutazione. Quando lo capiscono è però troppo tardi, nel senso che sono già usciti dal sistema di formazione universitario e recuperare le conoscenze psicometriche diventa per loro difficile. Il problema è anche della cultura del nostro Paese che continua a dare l’idea di una psicologia basata sul classico lettino, ormai minoritaria almeno nei paesi occidentali. Chi si appresta a studiare psicologia ignora un fatto semplice: che la psicologia è la scienza che ha contribuito di più allo sviluppo delle scienze statistiche dopo la matematica e, quindi, non può che essere caratterizzata da un approccio assolutamente scientifico di cui la psicometria è garante. Se sapessero questo probabilmente avrebbero una visione più adeguata del corso di studi che si apprestano a frequentare ed anche un maggiore interesse per la psicometria.

D. Quanto è vero il fatto che lo studente medio di psicologia crede di non avere un buon feeling con i numeri e quindi estende questa sensazione erroneamente alla psicometria?

R. Per le ragioni suesposte è del tutto evidente che lo studente di psicologia non ha, con le dovute lodevoli eccezioni, un buon feeling con i numeri e questo è un peccato perché significa anche che non ha un buon feeling verso il metodo scientifico e oggi, chi non ha competenze utili per la società e di cui può dimostrare l’efficacia è obiettivamente ai margini della società stessa anche in termini di possibilità occupazionali.

D. Da dove deriva la convinzione erronea che chi lavora in certi settori o secondo certi approcci teorici non ha bisogno di conoscere i principali aspetti della psicometria?

R. Dalla storia di certa psicologia, non dalla psicologia in generale, perché la psicologia sin dalle sue origini come scienza autonoma (vedesi  Wundt e la British school of psychology, detta anche British school of psychometrics, ossia Spearman, Warburton, Cattell, Kline tanto per citarne alcuni) era caratterizzata essenzialmente da studi e interessi di ricerca di carattere sperimentale e psicometrico. Mi riferisco qui alle teorie di autori come Freud che in realtà sono esterne alla psicologia ed interne soprattutto alla psichiatria.  Quando ero studente all’Università di Roma “La Sapienza” un professore ci diceva che se volevamo fare gli psicoanalisti avevamo sbagliato laurea: dovevamo laurearci in medicina e specializzarci in psichiatria (e poi in psicoanalisi) perché la psicologia si occupa di altro. Aveva perfettamente regione: la psicometria, la psicologia delle differenze individuali (che fa parte storicamente anch’essa della psicometria) sono nate all’interno della psicologia, mentre la psicoanalisi, la psicologia individuale di Jung ecc. sono nate all’interno della psichiatria non a caso sono state messe a punto da psichiatri o neurologi e non da psicologi. Se si conoscesse un po’ la storia della psicologia non si commetterebbero errori gravi di questo tipo.

D. Il percorso formativo di uno studente laureando di psicologia comprende sufficiente spazio per lo studio e la comprensione della psicometria?

R. Dipende dai corsi di laurea e comunque il riconoscimento europeo dei titoli universitari in psicologia richiede un numero minimo di CFU di area metodologico-psicometrica. È ovvio però in tutti i casi che il problema fondamentale consiste nel far capire agli studenti che la psicologia è una scienza naturale e che, laddove la definissimo altrimenti, prima o poi lo Stato si chiederebbe che senso ha pagare prestazioni sanitarie di carattere psicologico, per esempio all’interno del Servizio Sanitario Nazionale,  e tali prestazioni  non sono basate su evidenze scientifiche. A quel punto rischieremmo la scomparsa della psicologia dalle prestazioni sanitarie che, per definizione, devono essere basate, come sancito anche recentemente da una sentenza della Corte di Appello del Tribunale di Firenze,  sulla evidenza scientifica.

D. Secondo lei, quanti professionisti scelgono di utilizzare o no un test a seguito di un’opportuna valutazione delle sue proprietà psicometriche? Quanti vanno al di là della considerazione della semplice ampiezza campionaria?

R. Ben pochi professionisti nel nostro Paese hanno purtroppo le competenze necessarie per selezionare ed utilizzare in modo adeguato i test psicologici e questo rappresenta un bel problema, che diventerà sempre maggiore a mano a mano che anche nel nostro Paese, come sta già avvenendo, si affermerà il modello basato sull’evidenza previsto ad esempio dal Decreto Gelli e  che entro due o tre anni entrerà pienamente in vigore. Il problema è che, come già avviene in ambito medico, lo psicologo, essendo divenuto operatore sanitario, non può più sedersi di fronte ad un paziente ed immaginarsi cosa fare, ma dovrà seguire linee guida ben specificate e, se non sarà in grado di farlo, rischierà molto dal punto di vista professionale come già avviene in buona parte dei paesi occidentali. Dobbiamo cioè dirci con molta onestà che dobbiamo saper rispondere alla domanda che ci verrà fatta sempre più frequentemente sul perché utilizziamo una determinata tecnica al posto di altre e che a questa domanda dovremo rispondere, come già da decenni fanno gli amici e colleghi medici, sulla base della ricerca scientifica.  Per fortuna molti giovani psicologi già si stanno orientando verso un approccio scientifico scegliendo scuole di psicoterapia scientifica e evidence based, e in generale, orientandosi anche in ambito accademico verso un approccio scientifico.

D. Può in qualche modo essere controproducente questa apparente suddivisione tra chi si occupa di psicometria e chi si occupa di clinica o la specializzazione settoriale può rappresentare un vantaggio?

R. La specializzazione settoriale non è a mio parere un vantaggio e la scelta da parte di più di una laurea magistrale in psicologia clinica di tenere fuori dal curriculum gli insegnamenti psicometrici non giova purtroppo a formare una mentalità scientifica negli studenti né a formarli all’altezza dei colleghi europei. Faccio solo due esempi (europei per l’appunto).

Alcuni anni fa ero in Erasmus quale docente alla Università di Amsterdam, e un direttore di dipartimento mi disse che lì il primo esame a psicologia era analisi matematica tenuta da un professore di matematica di ingegneria con lo stesso programma degli ingeneri e che se dopo un paio di volte non lo si superava non si poteva più studiare alcuna disciplina scientifica, psicologia inclusa. Quando lesse una certa meraviglia sul mio volto mi chiese: “Ma lei non pensa che la psicologia sia una scienza naturale? Perché se lo è non vi è niente di cui meravigliarsi, essendo la matematica la regina delle scienze naturali!”. Ovviamente io ero completamente d’accordo con lui, ma quanti lo sarebbero nel nostro Paese?

Nel 1994 circa ero visiting fellow al dipartimento di psicologia dell’University of Exter in UK con il Prof. Kline, allievo di Cattell. Conobbi una ragazza inglese che stava cercando di entrare al dottorato di ricerca in psicologia clinica che mi riferì che aveva preso un master in metodologia della ricerca psicologica perché i clinici preferivano studenti con quelle competenze per l’ammissione al dottorato di ricerca in clinica! Questi esempi ci fanno capire come in Italia siamo, almeno in questo, molto lontani dall’Europa.

D. In ambito di ricerca in psicologia, ritiene che le competenze psicometriche siano sufficientemente acquisite e padroneggiate da tutti coloro che lavorano nell’ambito, o sarebbe opportuno coinvolgere sempre un ricercatore in psicometria a supporto della ricerca?

R. Sarebbe assolutamente opportuno coinvolgere sempre un ricercatore o un docente universitario nelle ricerche psicometriche. In Italia negli ultimi anni abbiamo assistito al fenomeno del tutto positivo che molti psicologi (soprattutto in area clinica) hanno cominciato a pubblicare in ambito psicometrico.  Devo purtroppo anche aggiungere che lo hanno fatto spesso commettendo errori anche da “prima elementare”, laddove ovviamente non avevano avuto l’accortezza di chiedere la consulenza di un collega dell’area di psicometria. L’errore più frequente è quello di utilizzare tecniche di analisi datate, anche da molti anni, e non più considerate up to date che portano spesso ad interpretazioni erronee dei dati. Ricordo al riguardo che in un nostro lavoro su un test utilizzato in ambito clinico avevamo citato un lavoro di altri collegi italiani dicendo, con molto garbo, che non ci convincevano i loro risultati. Uno dei referees del nostro lavoro inserì un commento nel suo referaggio in cui sosteneva con molta chiarezza, con parole più esplicite delle nostre, che vi erano degli errori nel lavoro da noi citato. E potrei raccontarne molte altre su questo tema.

D. Ritiene che la ricerca in ambito psicometrico sia troppo teorica o autocentrata e necessiti di maggiori ritenute applicative?

R. La psicometria è per fortuna sin dalle sue origini in generale una scienza applicata. È però vero che per costruire un buon test psicologico in ambito applicativo bisogna avere competenze sia in psicometria che nel settore applicativo nel quale si sta operando. Ad esempio, nel laboratorio di psicometria della Università di Chieti-Pescara ove lavoro ci siamo occupati di test psicometrici in ambito clinico (quale il Teate Depression Inventory, TDI, pubblicato da Hogrefe Editore), ma è pur vero che alcuni di noi hanno la doppia competenza (psicometrica e clinica) e questo aiuta non poco. Io, in particolare, sono anche President elect della Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento e Terapia Comportamentale e Cognitiva (AIAMC) che si occupa esclusivamente di psicoterapia basata sulla evidenza e che si impegna a formare i giovani psicologi e medici solo in questo ambito.

D. A suo parere, è chiaro a chi lavora nel settore che un supporto psicometrico è importante nella fase di progettazione e definizione del disegno della ricerca e non soltanto a conclusione della raccolta dei dati?

R. Non è assolutamente chiaro purtroppo. Consiglio pertanto fortemente a chi si accinge ad effettuare una ricerca in questo settore a chiedere il supporto psicometrico sin dalla fase di progettazione della ricerca. Garbage in, garbage out, ossia se si elaborano dati spazzatura anche i risultati saranno spazzatura.

D. Che cosa si potrebbe fare per motivare di più gli studenti di psicologia allo studio della psicometria?

R. Sono convinto che, soprattutto per gli insegnamenti di teoria e tecniche dei test, sarebbe fondamentale una collaborazione tra docenti universitari di psicometria e case editrici di test psicologici così da trovare insieme modalità per mostrare agli studenti come funzionano i principali test psicologici che sono sul mercato. Al momento la situazione è invece che non è possibile per ragioni di copyright mostrare test psicologici agli studenti. Solo invertendo questa situazione, considerando ovviamente tutti i principi etici e deontologici del caso, possiamo far capire l’importanza dell’utilizzo dei test agli psicologi del futuro. Non vi è, infatti, nulla di meglio per capire l’utilità di uno strumento che testarne il funzionamento.