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Costruire la resilienza. Nuove strategie di prevenzione e trattamento
Costruire la resilienza. Nuove strategie di prevenzione e trattamento
Il Resilience Model
Il termine resilienza non ha un significato univoco e assume sfumature differenti a seconda della cornice nel quale lo inquadriamo. In fisica meccanica si definisce resilienza la resistenza di un materiale alla deformazione e alla rottura e la sua capacità di riassumere la forma iniziale; il suo valore è determinato attraverso una prova d’urto. In biologia e in ecologia la resilienza esprime la capacità di un sistema di ritornare a uno stato di equilibrio in seguito ad un evento perturbante.
In ambito psicologico si fa riferimento anche alla matrice latina del termine (resilire, da re salire, saltare indietro, rimbalzare), per esprimere la capacità dell’individuo di fronteggiare un qualsiasi evento traumatico, acuto o cronico, ripristinando l’equilibrio psico-fisico precedente al trauma e, in certi casi, migliorandolo.
Secondo la visione della psicopatologia dello sviluppo si tratta di un costrutto allargato e complesso, che coinvolge l’individuo nella sua interezza biopsicosociale, congiuntamente con i fattori culturali e comunitari; un processo dinamico in cui si realizza con successo un adattamento a situazioni di vita stressanti nonostante l’esperienza di avversità e traumi significativi vissuti in prima persona. Questo approccio mette in evidenza l’importanza delle risorse o dei punti di forza di un individuo rispetto alle proprie capacità di autoriparazione per la sopravvivenza.
Un altro costrutto che attiene all’area della resilienza è quello dei promotive factors; si tratta di un concetto quasi sovrapponibile a quello di fattori protettivi e include l’assetto individuale e le risorse contestuali in gioco che possono favorire lo sviluppo.
Esiste un filone di ricerca sempre più corposo sugli effetti protettivi che questi esercitano rispetto alla possibilità di sviluppare nel corso dello sviluppo una psicopatologia, condotte devianti o ancora dipendenza da alcool e altre sostanze. Essenzialmente la loro azione si esprime in una compensazione o bilanciamento degli effetti del rischio e delle avversità.
Lo studio dei fattori protettivi è fondamentale perché contribuisce alla nostra comprensione dei processi di sviluppo e indica strategie per la formulazione di programmi di prevenzione. I bambini dotati di fattori protettivi crescono adeguatamente nonostante siano esposti a condizioni di rischio e sono considerati resilienti; i bambini che mancano di fattori protettivi o in cui questi non sono adeguatamente sviluppati possono presentare difficoltà sul piano emotivo, comportamentale o difficoltà di apprendimento e sono descritti come vulnerabili.
Garmezy nel 1985 suggerì che i fattori protettivi possono essere divisi in tre categorie:
- fattori ambientali (sistema di supporto della comunità: programmi di assistenza ai bambini, sicurezza dei quartieri etc.), politiche sociali adeguate;
- fattori familiari (adulti di riferimento adeguati, famiglia supportiva);
- Caratteristiche individuali del bambino (temperamento, intelligenza, carattere e competenze sociali ed emotive).
La teoria della resilienza enfatizza il ruolo dei fattori protettivi per quei bambini che crescono in condizioni di avversità, fornendo una cornice teorica che ci permette di comprendere perché alcuni bambini e adolescenti che crescono in condizioni di grave rischio non sviluppino problemi sul piano del funzionamento psicologico o sociale. Per meglio comprendere questi risultati sono stati proposti due modelli: il modello compensatorio e il risk-protective model.
Il primo modello prevede che i fattori protettivi possano neutralizzare l’azione dei fattori di rischio con un meccanismo di sostituzione. Il secondo concepisce i fattori protettivi come qualcosa in grado di modulare l’influenza negativa dei fattori di rischio prevedendo un’interazione tra i due ordini di fattori e non una sostituzione. Diversi studi hanno fornito un sostegno empirico a entrambi i modelli. Zimmerman e colleghi in uno studio del 2002 su un campione di 770 adolescenti, hanno rilevato che avere un modello adulto positivo di riferimento può avere un ruolo compensatorio rispetto all’insorgenza di problemi comportamentali in adolescenza, inclusi abuso di sostanze e condotte devianti.
Molti studi hanno valutato l’effetto compensatorio o protettivo di singoli fattori come la famiglia, la scuola, la relazione con i pari, la comunità, il funzionamento individuale. Uno studio di Zimmerman condotto su 568 adolescenti ha evidenziato che la presenza e il coinvolgimento del padre in termini di tempo speso insieme e supporto alle attività del ragazzo ha un ruolo compensatorio rispetto all’emergenza di problemi comportamentali (Zimmerman, Steinman, Rowe, 1998). Studi importanti più datati hanno sottolineato il ruolo compensatorio rispetto all’emergenza di abuso di sostanze in adolescenza e all’assunzione di altri comportamenti a rischio svolto da fattori come la presenza di supporto genitoriale, collegamento all’ambiente scolastico, successo accademico, presenza di affetti positivi, adesione ad un credo religioso.
In generale dunque le evidenze empiriche supportano l’assunto che i fattori protettivi possono avere un effetto compensatorio, o appunto protettivo, rispetto ai fattori di rischio associati all’abuso di sostanze o problemi comportamentali; tuttavia la maggior parte dei lavori si sono concentrati sull’effetto di singoli fattori mentre ci sono pochi studi che valutano l’effetto cumulativo di più variabili.
I fattori protettivi individuali possono infatti non essere sufficienti a compensare o modulare gli effetti di una particolare costellazione di rischi. La resilienza è un processo che implica una complessa interazione tra fattori di rischio, caratteristiche individuali e risorse e richiede una ricerca basata su un approccio multifattoriale sia dal punto di vista dei rischi che dei fattori protettivi.
Nonostante esistano una serie di evidenze che supportano il compensatory model della resilienza per l’abuso di sostanze, i fattori di rischio sembrano essere dei predittori più forti dei fattori protettivi rispetto allo sviluppo di una dipendenza. Tuttavia il modesto ruolo dei fattori protettivi in questa specifica situazione non è di poco conto; sappiamo infatti che un effetto minimo può rivelarsi significativo se la variabile dipendente è difficile da modificare, come nel caso dell’abuso di sostanze in adolescenza. Parafrasando possiamo dire che l’effetto cumulativo dei fattori protettivi per quanto riguarda l’abuso di sostanze in adolescenza è più forte quando il rischio è moderato o alto. Questo suggerisce che i processi che regolano la resilienza sono più efficaci quando l’esposizione al rischio è relativamente alta, risultato che sembra coerente con la definizione stessa di resilienza.
Modelli patogenetici: resilienza, regolazione comportamentale e regolazione emotiva
La resilienza, rispetto alla regolazione emotiva e comportamentale, può essere descritta come la capacità individuale di adattare in modo flessibile il controllo dei propri impulsi e la modulazione dei propri stati emotivi in relazione alla domanda contestuale.
L’associazione di questi tre costrutti ‒ regolazione comportamentale, regolazione emotiva e resilienza ‒ affonda le sue radici nello storico lavoro di Block e Block su Controllo dell’Io (Ego Control, EC) e Resilienza dell’Io (Ego Resiliency, ER) e sul lavoro più recente di Eisenberg e colleghi su controllo reattivo e resilienza (Block e Block, 1980; Eisenberg, Spinrad, Fabes, Reiser, Cumberland et al., 2004).
Controllo dell’Io e Resilienza dell’Iosono state concettualizzate da Block e Block come due dimensioni di personalità complementari che operano congiuntamente; la prima si riferisce al grado di espressione degli impulsi emotivi che varia da uno stile spontaneo e immediato a uno coartato e inibito; il secondo si riferisce alla capacità dinamica di modificare il livello di controllo dell’Io in modo flessibile, in relazione alle richieste ambientali.
Eisenberg e colleghi nel tentativo di descrivere in che modo le competenze di regolazione emotiva e comportamentale influenzino il comportamento hanno proposto una teoria che collega autoregolazione comportamentale, emotività e resilienza. Differenziano due tipi di controllo, il controllo reattivo (un processo involontario e automatico) e il controllo volontario, diretto all’obiettivo, che permette di rispondere all’ambiente in modo adattivo; solo quest’ultimo avrebbe un ruolo nella regolazione emotiva e comportamentale. Un’altra importante componente della teoria di Eisenberg è l’emotività, che fa riferimento alla tendenza ad esperire in modo intenso emozioni negative come ansia, tristezza, irritabilità, rabbia. Il grado di emotività, unito ai processi di controllo, condiziona la resilienza e il funzionamento sociale ed emotivo.
Controllo comportamentale e resilienza sono stati studiati in un ampio spettro di comportamenti e aspetti psicopatologici nell’infanzia e nell’adolescenza.
La capacità di controllo dell’Io secondo Block, costrutto, come abbiamo sopra accennato, molto vicino al controllo comportamentale di Eisenberg è stata associata alla capacità di attendere la gratificazione, all’assenza di problemi di tipo internalizzante e esternalizzante e alla capacità di assumere comportamenti socialmente adattivi. La resilienza dell’Io correla negativamente con egocentrismo, depressione e problemi internalizzanti e positivamente con un buon livello di socialità.
Alcuni lavori si sono concentrati sul rapporto tra controllo comportamentale/resilienza e abuso di sostanze.
Le evidenze più dirette provengono da una studio longitudinale di Block e Block (2006) secondo il quale una scarsa capacità di controllo dell’Io nella prima infanzia rappresenterebbe un fattore predittivo per il consumo di marijuana a 14 anni, in ambo i sessi. Il follow up dello stesso campione a 18 anni ha dimostrato che un controllo dell’Io deficitario si associa più frequentemente all’abuso di droghe.
In uno studio di Wong e colleghi del 2006 (Wong, Nigg, Zucker, Puttler, Fitzgerald, et al., 2006) gli autori hanno esaminato gli effetti di controllo comportamentale e resilienza sull’emergenza precoce di abuso di alcool e sostanze. Si tratta di un’estensione di precedenti lavori sugli antecedenti di personalità delle dipendenze con una descrizione delle traiettorie di sviluppo di questi due parametri isolate dall’effetto di problemi sul piano internalizzante o esternalizzante e con un approfondimento sull’effetto di modulazione che l’emotività esercita sulle altre due dimensioni.
Questo studio ha mostrato che il controllo comportamentale aumenta se la resilienza rimane stabile nel tempo e che tra i due costrutti nel tempo esiste una relazione non lineare, nel senso che a livelli troppo alti o troppo bassi di controllo comportamentale corrispondono bassi livelli di resilienza, mentre a livelli moderatamente alti di controllo comportamentale sarebbe associata una buona resilienza.
Nonostante bassi livelli di controllo comportamentale correlino con la presenza di problemi esternalizzanti questo lavoro fornisce una base teorica per poter distinguere il controllo comportamentale inteso come tratto di personalità dalla dimensione psicopatologica mostrando che procedendo dall’infanzia all’adolescenza rispetto alle dipendenze ha un valore predittivo molto più alto la presenza del tratto di personalità rispetto alla dimensione psicopatologica esternalizzante.
In generale, questo lavoro è il primo a dimostrare una correlazione, già sostenuta da un punto di vista teorico, tra controllo comportamentale e resilienza con una prospettiva longitudinale.
I bambini con livelli di controllo comportamentale molto alti o molto bassi sono i meno resilienti in una prospettiva di sviluppo mentre quelli con livelli medi sono i più resilienti. Quando queste competenze stentano ad emergere nell’infanzia siamo di fronte ad una situazione a rischio per quanto riguarda lo sviluppo di una futura dipendenza.
Secondo Block il controllo dell’Io è quello che crea i presupposti in termini di sistema di valori, suscettibilità personale, apertura a situazioni di vita favorenti e può avere un ruolo nell’avvio di una dipendenza in adolescenza, ma è la presenza o assenza di resilienza a giocare il ruolo più importante nella tarda adolescenza e nella prima età adulta.
In uno studio longitudinale di Cicchetti (Cicchetti e Lynch, 1993) vengono approfonditi i rapporti tra livelli di Ego Control (EC) e Ego Resiliency (ER) in adolescenti ad aumentato rischio psicopatologico per la presenza di una storia di abuso infantile e dipendenza da cannabis.
Una storia di maltrattamento infantile rappresenta un potente fattore di rischio per lo sviluppo di una dipendenza in adolescenza e nell’età giovane adulta ed è stata correlata alla presenza di problemi sul piano internalizzante e a condizioni familiari e ambientali avverse.
Variazioni di EC ed ER sono state associate ad una gamma di caratteristiche di personalità che includono sensation seeking e novelty seeking, deficit della regolazione emotiva e del comportamento e che predispongono l’individuo all’uso e all’abuso di sostanze.
Le variazioni di queste due dimensioni possono inoltre determinare un aumentato rischio psicopatologico nel bambino con riferimento a sintomi dell’area internalizzante o esternalizzante. Bambini con basso EC sono impulsivi e disinibiti e presentano un aumentato rischio di disturbi esternalizzanti mentre quelli con un alto EC sono inibiti e introversi e a rischio di problemi sul piano internalizzante. Anche un deficit di ER è associato ad un aumentato a rischio psicopatologico per la difficoltà di adattamento che questo comporta. Questi individui, utilizzando uno stile di adattamento rigido e poco flessibile, presentano un rischio aumentato di fallimento nelle sfide che gli si presentano sul piano socioambientale e interpersonale e sono a maggior rischio di sviluppare problemi internalizzanti ed esternalizzanti.
Nel Transactional-Ecological Model of Adolescent Substance Use di Cicchetti e Lynch (1993) il maltrattamento infantile viene considerato il fattore ambientale che più di tutti può mettere alla prova la nostra capacità di sviluppare in modo adattivo. Il rischio ambientale rappresentato dall’esposizione al maltrattamento precoce può potenziare lo sviluppo di una costellazione di personalità disadattiva e di aspetti psicopatologici che minano la possibilità del bambino di arrivare all’adolescenza con gli strumenti adatti ad affrontare e risolvere le sfide che questa comporta.
La relazione tra gravità del maltrattamento nell’infanzia e sviluppo in senso psicopatologico sembrerebbe mediato dal rapporto tra EC ed ER nell’infanzia e dalla comparsa di problemi sul piano internalizzante o esternalizzante in preadolescenza. I bambini esposti a maltrattamento in una fase molto precoce dalla loro vita (prima dei sette anni) mostrano infatti bassi livelli di EC (“undercontrol”) e bassi livelli di ER (“ego brittleness”) durante l’infanzia (tra i 7 e i 9 anni) se confrontati con bambini non maltrattati. Questa popolazione unita a quella costituita da bambini con EC eccessivamente elevato (“overcontrol”) e bassa ER, rappresenta un gruppo fortemente a rischio per lo sviluppo di problemi sul piano internalizzante o esternalizzante in preadolescenza (tra i 10 e i 12 anni) e di una dipendenza da sostanze in adolescenza tra i 13 e i 15 anni.
Aspetti neurofunzionali: funzioni esecutive e resilienza
Le basi neurali di questo costrutto non sono state studiate in modo sistematico in letteratura; esistono tuttavia alcuni lavori che attraverso un approfondimento degli aspetti neuropsicologici e morfofunzionali (fMRI, studi elettrofisiologici) hanno evidenziato una relazione tra resilienza e funzioni esecutive.
Sembra che la resilienza abbia un ruolo nello sviluppo delle funzioni esecutive mantenendo con esse una relazione costante in grado di regolare le nostre prestazioni cognitive e di adattamento sociale. Si tratta di due costrutti indipendenti che contribuiscono allo sviluppo della mente del bambino e dell’adolescente con un meccanismo additivo.
Quando parliamo di funzioni esecutive ci riferiamo a funzioni quali pianificazione, inibizione della risposta, set shifting e working memory.
La working memory è un sistema con una capacità limitata, costantemente aggiornato, che immagazzina dati in modo temporaneo regolato da funzioni di ordine superiore e in interscambio continuo con i processi di pensiero, le percezioni e le azioni. Studi di neuroimaging funzionale hanno dimostrato che la working memory è un processo che implica l’attivazione di un network di cui fanno parte i gangli della base e le regioni corticali prefrontale, parietale e cingolata anteriore.
Le funzioni attentive sembrano invece regolate del sistema anteriore formato da corteccia cingolata e prefrontale con le proiezioni ai gangli della base e al talamo.
Queste regioni cerebrali sarebbero deputate anche alla gestione di quelle che sono definite funzioni esecutive emotive, attraverso le quali siamo in grado di riconoscere e regolare i nostri vissuti emotivi e i comportamenti che da questi derivano valutando momento per momento in modo adattivo l’opportunità di assumere un comportamento controllato e attento o piuttosto comportamenti più impulsivi.
Modificazioni della connettività della via corticostriatale sembrerebbero influenzare direttamente queste funzioni e con esse la capacità di resilienza dell’individuo, dimostrando la sostanziale sovrapposizione tra i due costrutti.
Operare attraverso la resilienza: prevenzione, promozione e strategie di trattamento
In letteratura esiste una diatriba tra coloro la cui definizione di resilienza è applicabile esclusivamente a individui che non hanno mai presentato fattori di rischio o esibito comportamenti o sintomi di malattia mentale, dipendenza da sostanze, delinquenza, sindromi post traumatiche (Rutter, 1987;Werner, 1989) e coloro che concepiscono la resilienza come un costrutto più ampio per cui la capacità di recupero sarebbe una particolare forma di resilienza (Brown & Kulig, 1996; Horowitz, 1987; Miller, 2003; Roisman, 2005). Si discute inoltre sulla possibilità di svolgere un lavoro specifico sulla resilienza in varie fasi di sviluppo e in presenza di una psicopatologia.
Il lavoro terapeutico basato sulla resilienza, secondo una serie di riferimenti presenti in letteratura, si basa sulla possibilità dell’individuo di operare delle “trasformazioni cognitive” in momenti critici, definiti turning points (punti di svolta), all’interno di un percorso di recupero da eventi ed esperienze stressanti.
La possibilità per l’individuo di operare tali trasformazioni andrebbe interpretata come un marker di resilienza, rappresentando un adattamento a circostanze avverse che coinvolge i fattori protettivi.
Rutter (1987) sostiene l’opportunità di servirsi di questo tipo di operazioni psicologiche quando una traiettoria di rischio può essere ricondotta in uno sviluppo più adattivo. In verità il concetto deriva da Flach (1988) che ha parlato di punti di biforcazione (bifurcation points) e Horowitz (1987) che si è espresso in termini di punti di riorganizzazione dello sviluppo (points of developmental reorganization).
Poste queste premesse riteniamo tuttavia che l’investimento più fruttuoso sia quello che prevede la promozione delle abilità sociali ed emotive e la prevenzione della vulnerabilità nell’infanzia, basato cioè sulla possibilità di contribuire alla strutturazione delle capacità di resilienza a partire dalle fasi precoci dello sviluppo.
Sappiamo infatti che la resilienza poggia su una serie di competenze socio-emotive che si costruiscono a partire dalla primissima infanzia nel contesto interattivo costituito dalla famiglia, dalla scuola e dalla rete dei rapporti con i pari. Queste relazioni forniscono un profondo senso di sicurezza emotiva e supporto da parte degli altri ed è attraverso di esse che la resilienza può essere coltivata e alimentata dall’esperienza di tutti i giorni.
L’aspetto relazionale di questo costrutto implica la possibilità di operare in vari contesti a favore dell’acquisizione dei fattori protettivi individuali, quello che gli americani chiamano Apprendimento Socio-Emotivo (SEL, Social Emotional Learning).
La letteratura ci insegna che gli individui possono apprendere delle competenze per migliorare la loro resilienza.
Nel 2001 Ann Masten, la più eminente ricercatrice in quest’ambito, pubblicò un articolo dal titolo Ordinary Magic: Resilience Processes in Development (Masten, 2001, 2014). In questo lavoro l’autrice asseriva che, mentre negli studi precedenti che riguardavano bambini resilienti questi venivano identificati come remarkable individuals possessing extraordinary strength, studi più recenti hanno evidenziato che la resilienza è un fenomeno comune derivante da uno sviluppo sano dal punto di vista biologico, sociale ed emotivo nelle famiglie, scuole e comunità ben funzionanti. Non è di dominio di pochi privilegiati, ma potenzialmente di tutti i bambini.
La Masten e altri autori hanno dimostrato come la resilienza emerga dalla vita di tutti i giorni come un processo che regola gli stress della vita quotidiana. Nel loro modello la capacità di reagire con successo agli stress maggiori si costruisce nel tempo affrontando le piccole difficoltà quotidiane.
Una genitorialità efficace e una buona pratica di insegnamento possono accrescere la resilienza dei bambini, ma anche gli adulti possono imparare a diventare più resilienti. Ci sono molti programmi focalizzati sulla promozione della resilienza negli adulti che offrono risultati promettenti, come per esempio il Promoting Adult Resilience (PAR) Program (Liossis, Shochet, Millear, Biggs, 2009) e il REsilience and Activity for every DaY (READY) Program (Burton, Pakenham, Brown, 2010).
Promuovere lo sviluppo e supportare le capacità adattive a livello di popolazione sottintende anche un monitoraggio del contesti comunitari, dell’ambiente familiare e dello sviluppo del bambino.
Sappiamo infatti che le competenze adattive si sviluppano al massimo in un contesto adeguato mentre l’esposizione cronica al trauma e la crescita in un ambiente inadeguato mettono a rischio la loro emergenza.
Sappiamo anche che la capacità di resilienza si distribuisce tra diversi sistemi interagenti: siamo dotati di sistemi adattivi frutto di un’evoluzione biologica e culturale che si modificano in un processo di interazione continua con l’ambiente. Una parte della nostra capacità viene da un potenziale innato mentre il resto lo apprendiamo nel tempo e il rapporto con il caregiver rappresenta la prima grande tappa di questo processo.
Nei lavori di Cicchetti abbiamo visto come da un’infanzia traumatica si possa arrivare allo sviluppo di una dipendenza in adolescenza attraverso la mancata acquisizione di adeguate capacità di autocontrollo e resilienza che danno luogo a sintomi esternalizzanti nella preadolescenza.
I bambini esposti a maltrattamento o altre forme di abuso dovrebbero beneficiare di interventi di prevenzione precoce indirizzati al trattamento della relazione madre-bambino e attraverso questo ad uno sviluppo della personalità più adattivo. Bambini con bassi Ego Control e Ego Resilience necessitano di interventi centrati sullo sviluppo di capacità di adattamento flessibile in situazioni e contesti sociali differenti. Nella preadolescenza gli interventi di prevenzione dovrebbero focalizzarsi su un rafforzamento delle abilità sociali e delle competenze di regolazione emotiva e comportamentale al fine di ridurre i comportamenti di tipo esternalizzante e internalizzante.
In generale lavorare sui fattori protettivi sembra essere una strategia utile nei minori esposti a rischio.
Negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso sono stati formulati approcci focalizzati sulla riduzione del rischio di abuso di sostanze basati sulla vulnerabilità allo stress e sul concetto di deficit che hanno dato un loro contribuito allo sviluppo di interventi più efficaci. I clinici che lavorano con bambini e adolescenti si trovano tuttavia frequentemente a non poter modificare la loro vulnerabilità e i loro deficit. Di conseguenza i programmi di prevenzione basati sul potenziamento delle risorse individuali ed ambientali, e quindi sulla resilienza, si sono dimostrati molto promettenti nelle popolazioni esposte a fattori di rischio cronici come situazioni di grave disagio familiare, abusi, oppure bambini o adolescenti con problemi emotivi. Un esempio di questo tipo di interventi per bambini a rischio è il The Fathers and Sons Program sviluppato da Caldwell nel 2004 per preadolescenti Afroamericani senza padre con lo scopo di supportare e implementare le risorse familiari riducendo il rischio di sviluppo di una dipendenza, di comportamenti devianti o violenti e di condotte sessuali a rischio. The Fathers and Sons Program ha come obiettivo quello di rafforzare o favorire il coinvolgimento del padre nella vita del ragazzo migliorando la comunicazione padre-figlio e le competenze genitoriali. Questo tipo di intervento pone l’accento sulla figura del padre come fonte di resilienza ed è basato sugli studi di Zimmerman su popolazioni di neri americani nei quali si evidenziava un migliore outcome di sviluppo, nonostante la presenza di gravi fattori di rischio, se il padre era presente in casa come figura supportava (Zimmerman, Steinman, Rowe, 1998). Lo stesso programma include come obiettivi anche l’integrazione culturale e la socializzazione, fattori entrambi associati ad un minor utilizzo di sostanze tra i giovani afroamericani.
In generale sono sempre più numerosi i lavori di ricerca che, sulla scia del modello americano di Catalano del Positive Youth Development (PYD) (Catalano, Hawkins, Toumbourou, 2008), supportano una prevenzione basata sulle risorse.
Il PYD, come definito dal Dipartimento di Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti, favorisce l’integrazione, l’appartenenza ad un gruppo e la responsabilizzazione di tutti i giovani (National Clearinghouse on Families e Youth, 2007). Il governo federale ha chiarito che il PYD non rappresenta un singolo intervento, ma una vera e propria politica di prevenzione e di intervento integrati, finalizzato a rinforzare le abilità individuali e le competenze sociali. Gli Stati Uniti hanno utilizzato il PYD sin dal 1960 come strumento per fronteggiare e cercare di ridimensionare l'aumento del tasso di criminalità, di violenza, di povertà e delinquenza, ridurre l’incidenza di patologie psichiatriche e l’insorgenza di condotte sessuali devianti (Committee on Community-Level Programs for Youth 2002). Il PYD, sebbene siano state proposte molte teorie, si basa sul Social Development Model che rappresenta il principale modello che ha guidato gli interventi di prevenzione negli ultimi trent’anni. Il compito rivestito dal PYD consiste nel ridurre i problemi comportamentali, l’incidenza di malattie psichiatriche, i comportamenti delinquenziali, promuovendo la salute mentale e migliorando la qualità di vita.
Nel contesto del PYD sono stati formulati i programmi per l’Apprendimento Sociale Emotivo (SEL) costituiti da tecniche formative che promuovono lo sviluppo delle competenze socio-emotive e le capacità individuali degli studenti di tollerare lo stress. Una revisione sui programmi scolastici finalizzati all'insegnamento di queste abilità, ha riportato che i programmi SEL hanno il potenziale di: (1) accrescere l’autostima, (2) promuovere la frequenza scolastica (dedizione scolastica), (3) migliorare il profitto scolastico, (4) ridurre l’aggressività e i problemi di condotta, (5) ridurre l’uso di droghe. Una seconda meta-analisi ha riportato che quando i programmi SEL sono stati applicati nelle scuole, hanno permesso di: (1) accrescere le abilità socio-emotive, (2) migliorare l’interesse dello studente verso se stesso, gli altri e la scuola, (3) accrescere il comportamento sociale del singolo e dell'intera classe, (4) ridurre l’angoscia emotiva legata allo stress e alla depressione, e (5) promuovere un buon successo accademico. Durlak e Weissberg, (2007) hanno correlato l’applicazione del SEL ad un miglioramento dei risultati accademici: ad un incremento dei programmi SEL corrisponde un aumento significativo nei test standard rispetto agli studenti non coinvolti nei programmi. L’impatto positivo del SEL sull’apprendimento dello studente, ha spinto i politici a riconoscerne l’importanza curriculare. Nel 2004, l’Illinois ha adottato gli standard di apprendimento SEL a livello statale, pretendendo che ogni distretto scolastico sviluppasse un piano formativo, e altri stati (ad esempio New York) e le agenzie formative locali (ad esempio Anchorage, Alaska) hanno seguito l’esempio.
Conclusioni
Negli ultimi anni il concetto di resilienza ha acquisito una rilevanza dal punto di vista teorico sempre maggiore, sia nell’ambito del trattamento che, soprattutto, della prevenzione.
Abbiamo discusso di come si possa lavorare a vari livelli per modificare l’ambiente cercando di implementare i fattori protettivi. Nonostante il pensiero tradizionale sull’argomento descriva la resilienza come un attributo umano stabile, la letteratura più recente suggerisce che sia fortemente influenzata da fattori sociali esterni e quindi modificabile e soprattutto che possa essere appresa.
Attraverso strategie di prevenzione articolate che includano la scuola, i programmi di doposcuola e, quando necessario, i servizi sociali e gli operatori della salute mentale è necessario fornire, nei diversi contesti, l’opportunità di apprendere e utilizzare le competenze socio-emotive e di rinforzarle quando queste emergono.
Questi programmi dovrebbero essere 1) individualizzati e basati sui punti di forza e sui bisogni di ogni bambino, 2) sviluppati in una rete di scambio che permetta la collaborazione tra genitori e professionisti e tra i diversi enti coinvolti e 3) sottoposti a verifiche al fine di documentare l’evoluzione per ogni individuo.
In questi ultimi anni, specie negli Stati Uniti, nell’ambito di strategie di prevenzione su scala nazionale, sono stati sviluppati diversi programmi scolastici basati sulla resilienza volti al potenziamento di questa competenza nei bambini e negli adolescenti e i risultati sembrano promettenti.
Riteniamo che un approccio del genere possa essere applicabile anche nel nostro contesto scolastico e nelle organizzazioni che si occupano di infanzia a vari livelli e che possa rappresentare una risorsa importante in un momento storico in cui la struttura familiare e i sistemi di supporto presenti a livello di comunità non sembrano sempre riuscire a fornire le risposte necessarie per uno sviluppo socio-emotivo adeguato.
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