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numero 25 - marzo 2015

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Una giornata qualsiasi di uno psicologo penitenziario

Una giornata qualsiasi di uno psicologo penitenziario

Sono al secondo piano di una palazzina costituita in totale da quattro piani. Alla mia sinistra e alla mia destra partono due corridoi, ciascuno di 25 celle, un piano intero contiene in totale 100 celle, abitate ciascuna da due o tre detenuti. Sto parlando con un magrebino che si è procurato ferite su tutto il corpo. Gli chiedo le ragioni. Si sente impotente innanzi al diniego di poter chiamare i propri familiari al telefono. Siamo nel reparto di media sicurezza e, in particolare, nella casa circondariale, dove sono ospitate persone con pene brevi o persone ancora in attesa di giudizio, accusate di aver commesso un reato di strada. Il nostro magrebino è uno di quelli che non ha ancora una condanna. Tale realtà è tutt'altro che rara nelle nostri carceri e tutt'altro che banale. Infatti le persone collocate in custodia cautelare, per effettuare telefonate, devono chiedere il permesso al giudice delle indagini preliminari (e non al direttore del carcere come fanno i detenuti definitivi), rendendo la pratica più onerosa in termini di tempo. In carcere il tempo sembra bloccarsi, invece scorre: ogni istante suona come una tortura cinese per chi non può mettersi in contatto con i propri cari.
La maggior parte delle persone ubicate qui, in casa circondariale, sono persone disadattate, molti stranieri clandestini, tantissimi tossicodipendenti. Con loro è molto difficile instaurare una vera e propria alleanza terapeutica, perché la loro personalità è eccessivamente frammentata. Dallo stile di vita discontinuo, si tratta di persone che spesso non sono in grado neanche di garantirsi un'adeguata igiene personale. Il loro passato è fin troppo pesante per riuscire a trovare la speranza di un futuro diverso. Nella nostra società la marginalità sociale pare costituire una condanna ben più grave della condanna penale.
Il colloquio col nostro magrebino continua: un'intera famiglia sparita nel niente. Moglie e bambini, senza un numero di telefono o un indirizzo dove cercarli. La speranza di ritrovarne le tracce attraverso qualche cugino o qualche amico, se di amicizia si può ancora parlare quando la disperazione è tale da deformare qualsiasi tipo di relazione interpersonale: per la strada la necessità di sopravvivere prevarica qualsiasi conoscenza o qualsiasi affetto. Nonostante l'italiano parlato a stento, il colloquio procede. Quegli occhi trasmettono tristezza e il vuoto della loro luce lascia facilmente intendere che il gesto di autolesionismo di oggi sarà ripetuto in futuro.
Improvvisamente si affaccia nell'ufficio dei colloqui un agente penitenziario: “Dottore, la vogliono al telefono”. Mi reco all'apparecchio, e sento la voce di un ispettore che mi chiama dall'ufficio di sorveglianza: “Dottore, c'è un nuovo giunto”. Devo interrompere il colloquio col magrebino. Prima di lasciarlo gli chiedo scusa. Non voglio anche io cascare nella trappola di dimenticarmi che quella persona ha una sua dignità. Gli spiego il motivo per il quale me ne devo andare e gli do un altro appuntamento, che mi appunto sull'agenda per non dimenticarmene.
Corro dall'altra parte dell'istituto penitenziario. L'istituto è molto esteso: impiego circa 15 minuti per raggiungere la destinazione.
Trovo nella cella di transito una persona appena arrestata. In questi casi dare il benvenuto, significa ridurre la probabilità che quella persona rimanga schiacciata dall'impatto col carcere e allontanare in questo modo il pericolo di suicidio. È molto importante dedicare del tempo a questa operazione. Le persone che entrano in carcere sono sopraffatte da una moltitudine di emozioni: lo spavento di entrare in un ambiente sconosciuto, l'aspettativa di trovare persone aggressive, la paura di essere aggredito, ma anche la disperazione per essere stato improvvisamente separato dai propri cari, una moglie, qualche figlio, i genitori, il lavoro. Lasciare fuori dalle mura tutto quanto prima era quotidianamente alla portata di mano può costituire fonte di preoccupazioni intollerabili. Dare voce a tutto questo significa aiutare la persona a non sentirsi sola. C'è qualcuno lì dentro, in carcere, disposto ad ascoltare e, se possibile, anche a fare qualcosa per alleviare la sofferenza: è uno psicologo che non vuole giudicare la condotta. I nuclei familiari raggiunti da un mandato di cattura sono sovente costituiti da persone emarginate, dotate di carenti capacità lavorativa. Spesso l'unica fonte di guadagno era garantita dal capofamiglia finito nelle maglie della criminalità. Con il suo arresto ci possiamo trovare moglie e bambini privi della possibilità di acquistare beni di prima necessità o di far fronte alle spese dell'affitto. In tutti questi casi può essere utile allertare i servizi sociali territoriali. Ascoltare senza giudizio significa mettere da parte la componente legale della condotta e azzardare a ritrovare l'uomo. Secondo il nostro sistema penitenziario, solo un carcere capace di incontrare l'uomo può ritenersi un carcere civile.
Finito il colloquio di primo ingresso sono di nuovo chiamato in un altra sezione. C'è un detenuto che si rifiuta di entrare in cella. Lo conosco, si tratta di una persona che soffre di un disturbo di personalità. Talvolta il suo umore subisce una significativa deflessione. Lo raggiungo sul piano. Vengo scortato da un agente per avvicinarmi alla sua cella.

Questi brevi cenni a ”una giornata qualsiasi” dello psicologo all’interno del carcere, ci introducono in quelli che sono i compiti dello psicologo penitenziario, successivamente descritti in modo schematico e sintetico, naturalmente non esaustivi, ma utile a farsi un’idea della complessità a rispondere in modo capillare e professionale ai diversi mandati.

Lo psicologo penitenziario è chiamato a svolgere:

L’attività di osservazione e trattamento, rivolta ai detenuti e agli internati. L’art. 13 dell’O.P. recita: “Il trattamento rieducativo deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. Per rilevare le carenze fisiopsichiche e altre cause del disadattamento sociale nei confronti del condannato è predisposta l’Osservazione Scientifica della Personalità...” Lo psicologo entro 9 mesi ‒ dal momento che la sentenza è andata in giudicato e il detenuto inizia a scontare la pena ‒ attraverso i colloqui, raccoglie dati anamnestici, informazioni necessare per formulare una psicodiagnosi e una valutazione clinica dello stato psichico della persona detenuta. L’attenzione è sull’autore di reato, su i suoi vissuti, sulle cause del comportamento deviante; sulle variabili individuali e contestuali che hanno portato alla commissione dell’atto. Lo psicologo si deve anche esprimere sugli aspetti prognostici, sul possibile processo di cambiamento ed elaborazione di quanto accaduto, sulla sua effettiva recuperabilità. La valutazione dello psicologo, insieme a quella dell’educatore e dell’assistente sociale, è finalizzata alla concessione di misure alternative alla detenzione.
Il trattamento rieducativo, più ampio come concetto di quello penitenziario, viene attuato sulla base della individualizzazione della pena, in relazione appunto a quanto emerge dall’osservazione della personalità della persona, dalla valutazione delle sue risorse ed esigenze individuali. Tale compito risponde ad un mandato istituzionale (l’Amministrazione Penitenziaria e il Magistrato di Sorveglianza), non è rivolto alla presa in carico della sofferenza psicologica del detenuto. In questa fase evidenziamo una prima criticità: la necessità che lo psicologo definisca sempre il suo setting: di osservazione e valutazione piuttosto che di cura e sostegno.

Il sostegno psicologico. Si tratta di un’attività rivolta ai detenuti in attesa di giudizio, finalizzata a contenere e ridurre la perdita degli interessi del soggetto dal punto di vista affettivo e familiare. Questo compito è tanto più rilevante quando siamo di fronte alla prima carcerazione.

Il Servizio Nuovi Giunti è un’attività di accoglienza nella fase dell’ingresso in carcere, è nato per contrastare l’aumento dei suicidi, degli atti di autolesionismo e di violenza. Consiste in un colloquio con il “nuovo giunto”, lo stesso giorno dell’ingresso, o entro le 24 ore successive. Avviene proprio è stato descritto “nella giornata lavorativa dello psicologo penitenziario”. Questo servizio non si limita a classificare i soggetti a rischio, ma dovrebbe costituire un’effettiva presa in carico della persona ‒ attraverso un piano di trattamento psicologico individualizzato ‒ che presenta quei fattori di rischio che potrebbero portare a compiere agiti auto lesivi o anticonservativi.

Presidio sanitario tossicodipendenti è nato per l’assistenza a tossicodipendenti, alcooldipendenti e soggetti affetti da HIV. Tale presidio è stato trasferito al Servizio Sanitario Nazionale con D.Lgs 230/99, operativo dal 2002. Questa attività richiede interventi di psicodiagnosi, sostegno, trattamento clinico, capacità di lavorare in équipe e coordinamento in rete con i servizi esterni all’Istituto.

Consiglio disciplina integrato ex art. 14 bis. Questa attività vede coinvolto lo psicologo ad esprime un parere sulla necessità di sottoporre il detenuto al “regime di sorveglianza particolare”. Condizione rivolta a coloro che sono ritenuti pericolosi per l’ordine e la sicurezza. In questo contesto, lo psicologo assume una funzione giudicante e risponde ad una richiesta di controllo sociale; funzione che mal si concilia con il mandato deontologico di promuovere la salute psichica e il bisogno psicologico e psicofisico delle persone detenute. Si pensi che il regime di sorveglianza speciale prevede minimo 6 mesi di isolamento, poi eventualmente prorogabili.

Da questa breve sintesi delle attività descritte notiamo che, a fronte di un monte massimo di 64 ore mensili, pagate € 17,63 l’ora lorde, previste per ciascun psicologo penitenziario (chiamato “esperto ex art. 801), il tempo è insufficiente per adempiere a questi compiti, in modo professionale ed etico; il compenso suscita indignazione rispetto al mancato riconoscimento della specificità professionale richiesta per lavorare in tale contesto.
Inoltre, l’esperienza lavorativa succitata ci fa riflettere sulla difficoltà in cui opera lo psicologo di rispondere alle richieste dell’Istituzione e a quelle del detenuto. È in questo contesto di doppio mandato che lo psicologo cerca di creare uno spazio di ascolto, quale interlocutore privilegiato, capace di raccogliere emozioni e vissuti delle persone ubicate in un luogo, che tende a disumanizzare in un magma umano depauperato della ricchezza di ciascuna individualità. Ricordiamo, inoltre, che lo psicologo penitenziario non solo promuove il benessere psicologico dell’individuo, ma anche del gruppo e degli interlocutori che afferiscono al sistema penitenziario; pur consapevole che gli interventi si muovono in un contesto di precario equilibrio tra gli aspetti strumentali dell’Istituzione e quelli manipolativi del detenuto.

1 (come da introduzione dell’art. 80 della Legge 354/75 “Norme sull’Ordinamento Penitenziario”) che prevede la possibilità di avvalersi di “esperti” tra i quali gli psicologi, diventando nel tempo la figura prevalente rispetto alle altre indicate.