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numero 109 - marzo 2024

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L'intervista

Intervista a Umberto Castiello

Intervista a Umberto Castiello

Parliamo di psicologia vegetale con il Prof. Umberto Castiello, Ordinario di Neuroscienze Cognitive presso il dipartimento di Psicologia Generale. Approfondendo il tema dei processi cognitivi vegetali, vedremo ciò che le piante sono in grado di fare e che forse non sapevamo.

D. Cos’è la cognizione vegetale?

R. Un aspetto di cui si occupa la psicologia riguarda i processi cognitivi. Quei processi che esseri umani e animali mettono in atto per interagire e navigare con l’ambiente. Mi riferisco alla capacità di percepire gli stimoli, apprendere e memorizzare le informazioni, pianificare un movimento, prendere decisioni. Ecco la cognizione vegetale si muove all’interno di questo impianto teorico facendo riferimento al comportamento delle piante. I comportamenti che osserviamo nelle piante sono molto simili a quelli che si osservano negli animali. Se quei comportamenti ci convincono che gli animali posseggono processi mentali, perché dovremmo pensare che le piante non li posseggano? Ciò che propongo è di considerare le piante come un sistema a-neurale in grado di contribuire alla comprensione dei meccanismi fondanti della cognizione, se come definizione di cognizione adottiamo la capacità di percepire i segnali provenienti dall’ambiente circostante, elaborarli e mettere in atto risposte e strategie necessarie alla sopravvivenza. In altre parole, le piante sono cognitive nella scelta delle soluzioni da adottare, per far fronte alle difficoltà legate alla loro esistenza.

D. Perché è importante studiare da un punto di vista psicologico essere viventi così distanti dall’uomo, come le piante?

R. Se ci chiediamo perché ci si debba tanto sorprendere se le piante dimostrano comportamenti così simili a quelli degli animali e che negli animali sono interpretati come indizi certi della presenza di processi mentali, la risposta è che la sorpresa non è giustificata. La vita sulla terra è cominciata circa 3.5 miliardi di anni fa. Quell’inizio vale, ovviamente, sia per noi animali sia per le piante. Dopo circa 1.5 miliardi di anni si realizza la cruciale comparsa degli eucarioti (esseri unicellulari che contengono organelli specializzati e un nucleo con materiale genetico). Questo passaggio critico vale sia per gli animali sia per le piante. Come vale per entrambi la successiva comparsa di organismi pluricellulari, dopo ancora 1 miliardo di anni circa. Poi i destini evolutivi di piante e animali hanno cominciato a dividersi, circa 800/500 milioni di anni fa. Non è un tempo lunghissimo. Inoltre, non bisogna dimenticare che l’ambiente, gli oceani e le terre emerse, è stato, ed è, lo stesso per entrambi. E anche i tre meccanismi dell’evoluzione sono stati, e sono, gli stessi: genoma trasmesso ai discendenti, mutazioni casuali del genoma e selezione naturale. Non dovrebbe destare sorpresa che le soluzioni biologiche al problema della sopravvivenza, adottate da piante e animali, si assomiglino. Lo studio della cognizione affrontato sia dalla prospettiva animale che vegetale fornisce una visione più integrata dell’evoluzione dei processi cognitivi.

D. Come funzionano gli esperimenti di cognizione vegetale? Cosa si va ad indagare?

R. I nostri esperimenti si basano sullo studio del movimento. Il che può apparire paradossale visto che ad un primo sguardo, le piante possono sembrare immobili, strutture rigide fermamente radicate alla terra. Ma se l’umanità fosse avvezza a vedere la natura ingrandita 100 o 1.000 volte o a percepire ciò che accade nel corso di settimane o mesi nell’arco di un minuto questa idea apparirebbe in realtà completamente sbagliata. In altre parole, se il movimento delle piante fosse ricondotto ad una scala temporale più famigliare agli esseri umani ci apparirebbe visibile in tutte le sue forme. Velocizzando il loro movimento e misurandolo matematicamente con tecniche sofisticate scopriamo come prendono le loro decisioni e si comportano per far fronte ad un ambiente in continua evoluzione. È importante sottolineare che ricorrendo al time-lapse non cerchiamo artificialmente di far assomigliare le piante agli animali ma soltanto di rendere il comportamento delle piante più facile da percepire condensando il tempo affinché risulti a noi visibile e possa svelare l’intelligenza sottostante. I filmati in time-lapse mettono in luce schemi complessi e flessibilità del comportamento delle piante che non potremmo cogliere, proprio come rallentare i movimenti veloci di alcuni animali ci permette di vederli nei dettagli e comprenderli meglio.

D. È possibile attribuire ad organismi vegetali aspetti di “cognizione” come memoria, apprendimento o intenzionalità?

R. Se pensiamo alla memoria come la capacità di immagazzinare informazioni, e di recuperarle dopo un periodo di tempo variabile, allora la risposta è sorprendentemente affermativa. Prendiamo come esempio una pianta comune: la Malva (Malva silvestris L.). Una pianta le cui foglie durante il giorno seguono il movimento del sole e, durante la notte, si posizionano in maniera tale da anticipare la provenienza dei raggi solari del giorno che verrà. Si potrebbe dire che la Malva, quindi, ricorda quando e dove sorgerà il sole. Questo comportamento ha stimolato l’interesse dei ricercatori che, attraverso una serie di esperimenti, hanno dimostrato come la Malva sia effettivamente in grado di apprendere e ricordare la provenienza di una sorgente luminosa. Facciamo un altro esempio: La Dionea o Venere acchiappamosche, una pianta insettivora, ha bisogno di sapere quando un cibo adatto a lei si sta muovendo lungo le sue foglie. Serrare la trappola comporta un enorme dispendio di energia, e riaprirla può richiedere ore, così la Dionea vuole chiudersi soltanto quando è certa che l’insetto sia abbastanza grande da valerne la pena. Le grandi ciglia nere presenti nei suoi lobi consentono alla Dionea di percepire la preda, e si comportano come detonatori che fanno scattare la trappola quando al suo interno penetra una preda adeguata. Se l’insetto tocca soltanto una delle ciglia, la trappola non scatta; ma un insetto abbastanza grande verosimilmente tocca due ciglia entro venti secondi l’una dall’altra, e questo segnale mette in azione la Venere acchiappamosche. Possiamo considerare questo sistema come un analogo della memoria a breve termine con una durata molto limitata. Non può esservi memoria se non vi è stata, precedentemente, un’esperienza e quindi un apprendimento e non può esservi apprendimento senza possibilità di memoria. Un modo semplice per capire se le piante hanno la capacità di apprendere è quello di metterle in situazioni che non hanno mai esperito durante la loro evoluzione e osservare come si adattano. Per esempio, piante di Mimosa pudica che venivano fatte cadere da una certa altezza (un evento che la pianta non ha mai esperito nella sua storia evolutiva) evidenziavano la reazione iniziale di serrare le foglie. Tuttavia, dopo parecchie “prove di volo” le foglie della pianta rimanevano immobili, come a testimoniare il fatto che la pianta apprendeva che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Per quanto riguarda l’intenzionalità i nostri studi suggeriscono che è possibile notare differenze nel comportamento delle piante a seconda del tipo di intenzione che lo determina. L’aspetto più interessante e nuovo riguarda le differenze nella programmazione di un movimento in base alle caratteristiche dello stimolo e il contesto nel quale si sviluppa. Per esempio, se il movimento viene eseguito con un’attitudine sociale (ccoperazione, competizione) o individuale. Tali ricerche ci permettono di capire se il modo in cui un’azione viene eseguita esprime un’informazione relativa allo stato “mentale” che l’ha causata (ad esempio l’intenzione di eseguire una data azione). Comprendere quindi la relazione tra movimento e la possibilità che l’intenzione finale di un’azione si rifletta nel modo in cui essa viene eseguita.

D. Come comunicano le piante? Sono in grado di mettere in atto dei “comportamenti” che si potrebbero definire “sociali”?

R. Il linguaggio delle piante è prevalentemente chimico, e non ha proprio nulla da invidiare a quello di alcuni animali e dell’uomo. Per comunicare le piante utilizzano migliaia di molecole chimiche volatili. Questa forma di linguaggio chimico è estremamente sofisticata e una singola “parola” può avere significati diversi a seconda di chi la ascolta. Vi sono caratteristiche che rendono il linguaggio chimico e silenzioso delle piante simile per alcune caratteristiche al linguaggio umano, presentando una costruzione gerarchica da unità più semplici, a unità più complesse, proprio come il linguaggio umano, dai morfemi alle parole alle frasi. Ancora, è stato riconosciuto come questo linguaggio sia creativo, proprio come quello di alcuni animali, dalle api alle balene, alle scimmie, all’uomo. La creatività si rivela nella capacità delle piante di utilizzare le stesse molecole ma combinarle in maniera differente a seconda del messaggio da veicolare. Ancora, la capacità astrattiva del linguaggio umano di richiamare concetti che non sono tangibili nel qui ed ora, è stata riconosciuta anche nelle piante. Per noi è necessario decodificare il ‘linguaggio’ vegetale perché ci aiuterebbe a capire come le piante reagiscono ai cambiamenti climatici. Il rischio è che i cambiamenti climatici che stiamo esperendo possano deteriorare tale mezzo di comunicazione e così destabilizzare l’intero ecosistema. Alcuni segnali potrebbero essere amplificati mentre altri smorzati o addirittura resi impercepibili. In assenza di tale comunicazione le piante potrebbero non essere in grado di rilevare segnali di allarme e diventare più vulnerabili agli insetti o esserne sopraffatte. Al contrario, se l’emissione di questi segnali divenisse più efficiente, certe popolazioni di piante potrebbero essere in grado di difendersi molto meglio dagli insetti che, scoraggiati, potrebbero mettesi alla ricerca di nuove fonti di sostentamento distruggendo altre specie di piante e cambiando così gli equilibri dell’intero ecosistema.

D. Quali sono le applicazioni pratiche della cognizione vegetale?

R. La relazione mutualistica tra il genere umano e le circa 7.000 specie di piante alimentari e alle 28.000 ornamentali ha sovrapposto alla selezione naturale altre pressioni che, se da un lato hanno consapevolmente generato varietà coltivate in grado di fornire prodotti sempre più abbondanti e utili, potrebbero inconsapevolmente aver ridotto alcuni dei meccanismi adattativi che caratterizzavano i genitori ancestrali. In altre parole, le piante coltivate potrebbero essere meno capaci di conoscere e più “stupide” di quelle naturali. Le ricerche nell’ambito della psicologia vegetale potranno contribuire a studiare i livelli di intelligenza delle piante e fornire dati importanti per impedire una degenerazione “cognitiva” che permetta alle piante di adattarsi ad un ambiente in costante cambiamento.

D. Quali sono gli sviluppi futuri di questa disciplina? In che direzioni si sta muovendo la ricerca?

R. L’evoluzione ha permesso al regno vegetale di lavorare sulla propria architettura fino a ottenere risultati che oggi vengono presi a modello, per resistenza ed efficacia, da numerosi architetti e ingegneri per le più visionarie e tecnologiche opere di costruzione. Un esempio fra tutti si trova nel campo della robotica: i Plantoidi. Negli ultimi decenni la robotica ha sempre cercato di ricreare e simulare le forme animali e, soprattutto, umane. Tuttavia, ponendo l’attenzione sulle piante si è notato come queste siano un magnifico esempio di flessibilità, resistenza e resilienza: la struttura modulare permette loro di essere estremamente adattabili per fronteggiare l’ambiente. I nostri dati sulla cinematica del movimento e la comunicazione potranno rivestire un ruolo importante per la definizione delle architetture cognitive sottostanti queste applicazioni. Un’altra applicazione riguarda la biosensoristica. Nelle colture protette, il campionamento dinamico dell’aria e la sua analisi cromatografica seguita da spettrometria di massa, permette di identificare numerosi composti organici volatili, il cui profilo può essere associato alla presenza di specifici fitofagi e patogeni. La messa a punto di sistemi automatici di diagnosi permetterebbe una interventi di difesa tempestivi e mirati. Sebbene non siano ancora del tutto chiariti i meccanismi con i quali le piante comunichino l’insorgere di stress abiotici (stress idrico, salino, di sommersione ecc.) vi sono numero studi che hanno descritto i profili metabolici di composti organici emessi da piante stressate. La comunicazione di tali segnali sarebbe a vantaggio dei soli riceventi e pertanto lascerebbe presagire un preciso linguaggio comunicativo. Decodificare tale linguaggio potrebbe portare ad utili applicazioni nel biomonitoraggio delle condizioni di stress ma anche alla sintesi di biometaboliti in grado di attivare efficaci processi di resistenza e resilienza agli stress abiotici sia nelle coltivazioni di pieno campo che nelle colture protette. I costi di queste strumentazioni molto elevati, ma la tecnica si è dimostrata efficace. Il nostro laboratorio, presso il Dipartimento di Psicologia Generale, grazie ad un finanziamento ERC, ha acquistato tale strumentazione che utilizziamo per studiare i messaggi chimici emessi dalle piante e trovare la Stele di Rosetta che permetta di decodificarli. Nel nostro laboratorio, unico al mondo, giovani psicologi si confrontano con queste nuove tecnologie arricchendo così il bagaglio metodologico ad alta tecnologia dello psicologo che già include tecniche quali la risonanza magnetica funzionale e varie applicazioni nell’ambito della genetica.