Osservatorio Talent
Il progetto: il cuore del processo formativo
Il progetto: il cuore del processo formativo
Mi capita spesso di interrogarmi sul ruolo del consulente e del formatore aziendale: su quali sono gli attuali scenari e naturalmente anche sul futuro di questa professione. Queste domande nascono quando mi chiedono di cosa mi occupo e alla mia risposta “Sono un formatore, lavoro con le competenze trasversali” seguono sempre svariate e bizzarre domande di approfondimento.
Molte persone danno per scontato che quando si parli di formazione del personale si faccia riferimento alla sicurezza sui luoghi di lavoro. Quasi come se la formazione iniziasse e finisse con l’obbligatorietà, un po’ come la scuola. La mia spiegazione negli anni suona quasi come una filastrocca-filosofica: “Il mio lavoro consiste nel conciliare il benessere dei singoli lavoratori con gli obiettivi aziendali, attraverso dei progetti costruiti ad hoc”. Qui spesso vengo guardato come una sorta di mago o stregone o mental coach e la risposta naturale del mio interlocutore è “Te dovresti venire da noi, ma non so se riusciresti”.
Oltretutto raccontato così sembra facile sensibilizzare le aziende alla necessità di un percorso formativo o consulenziale, nella realtà purtroppo è molto più complesso. Non a caso per molti anni la mia società aveva come seconda casa il Trentino Alto Adige, dove l’attenzione alla formazione del personale era maggiore.
Ricordo con piacere e con un certo senso di timore il mio primo corso di formazione a Bolzano sul tema Gestione dei conflitti. Era febbraio del 2007, ero uno psicologo in fasce e c’era la neve alta. Partii in treno con il mio pc, il manuale, le slide ed il mio timing per queste due giornate. Si trattava di un percorso interaziendale, di conseguenza avrei dovuto adattare gli esempi e le mie attività a diversi contesti organizzativi. Nella seconda giornata avevo deciso di giocarmi il Dilemma del Prigioniero, noto esercizio estrapolato dalla teoria dei giochi, dove il risultato di un gruppo è interdipendente dalla giocata dell’altro. Questo mi permise di far vivere lo spirito di competitività che esiste nelle relazioni interpersonali e soprattutto nelle fasi di sottogruppo e mi aiutò molto nella riuscita stessa del mio percorso.
Per quale motivo, vi domanderete? Beh, l’emotività creò molta tensione quasi tutti gli esempi che mi giocai nel pomeriggio furono esempi estrapolati da questa esperienza. In poche parole per spiegare un conflitto avevo bisogno di generarlo. Questo mi permise di capire l’importanza per l’apprendimento dei discenti dell’imparare attraverso il fare.
Quindi il ruolo di formatore come canalizzatore di esperienze vissute; riflettore acceso su ciò che succede, l’hic et nunc del setting d’aula. Non un cantastorie, ma un narratore delle dinamiche osservate. Le vicissitudini del gruppo come patrimonio dell’aula e motore per l’apprendimento.
A questa scoperta professionale seguì molta formazione nelle scuole su due tematiche principali: inserimento nel mondo del lavoro e orientamento alla creazione d’impresa. Lavorare con gli adolescenti è forse una delle esperienze più arricchenti per un trainer alle sue prime armi. I ragazzi non hanno filtri e il loro linguaggio verbale e non verbale è estremamente sincero. Se un ragazzo è annoiato lo dimostra e lo comunica sicuramente meglio di un adulto! Da questa esperienza capì quanto fosse importante avere un cassetto degli attrezzi di metodologie didattiche pronte all’uso. Negli anni ho creato una mia personale analogia: le metodologie didattiche sono un po’ come le scarpe per un camminatore è impossibile camminare per lunghe distanze sempre con le stesse scarpe così come tenere le redini e favorire la consapevolezza di un gruppo con la stessa strategia.
Una seconda deduzione è legata quindi alla conoscenza di una vasta gamma di metodologie didattiche che permettano di mantenere alta l’attenzione verso i propri obiettivi. Per questo motivo consiglio di costruire timing intelligenti che prevedano una certa flessibilità. Per esempio “Visto che questo concetto sul tema della leadership non vi rimane chiaro lo andiamo a vivere in un role playing per comprenderlo meglio...”.
Questa professione necessità di buona consapevolezza sul ruolo. Quindi cosa deve fare un trainer? Potremmo dire in maniera semplicista: deve facilitare i processi e le performance delle persone verso gli obiettivi aziendali. L’attore di questo processo è il discente, altrimenti svolgiamo l’attività di insegnante e non del trainer.
E adesso cerchiamo di contestualizzare tutto questo ai giorni nostri…
Lo scenario formativo è totalmente diverso. Oggi la formazione mai come in passato fa fatica a stare seduta in aula. Anche l’approccio interattivo del più bravo docente trova resistenza in un partecipante che ha sempre meno voglia di giocare il ruolo del discente, che ha sempre meno tempo e che ha sempre più desiderio di trarre da un evento formativo, oltre che il gap mancante nella propria collezione di competenze, l’opportunità di sviluppare contatti con altre persone, di fare network.
Buona parte della formazione sul tema del web marketing ha ormai trovato il suo canale privilegiato nei webinar, mentre fatica fortunatamente a passare questa mentalità per quanto concerne l’HR e in generale lo sviluppo delle capacità manageriali se non nella maggior parte dei casi per i follow-up.
In questo contesto resta forse più difficile comunicare il valore della qualità di un buon docente, eppure è proprio qui che sta la differenza qualitativa, è qui che si nascondono le cosiddette good practice.
La differenza la fa il progetto. Il progetto è il vero cuore del processo formativo.
La difficoltà consiste nel saper bilanciare ed equilibrare le due componenti determinanti per il successo del corso, ovvero:
- la componente razionale che i permette di sviluppare contenuti di spessore, coerenti con gli obiettivi da raggiungere;
- la componente emozionale che rende il corso avvincente per il coinvolgimento emotivo dei partecipanti.
Pochi progettisti hanno la capacità di coniugare questi due aspetti, la razionalità soffoca l’ emozionalità e la creatività o viceversa.
Quando predomina la razionalità, siamo di fronte al modello scolastico ricco di contenuti, dominato dalle competenze, ma spesso tristemente noioso. Basti ricordare i corsi sulla sicurezza, sulla finanza e controllo, sulla normativa ed altri. Questo non esclude la capacità di un docente illuminato in grado di uscire dai canoni della “lecture” e rendere anche questi corsi coinvolgenti.
Lo sbilanciamento verso l’emozionalità crea un fenomeno contrario: di grande coinvolgimento ma non necessariamente finalizzato agli obiettivi del corso.
Ricordo a tal fine un corso di team work in una nota azienda fiorentina. Il corso prevedeva il bellissimo esercizio di gruppo Sperduti sulla luna che impegnò i partecipanti in un’accesa discussione. A fine corso una partecipante, mi fece i complimenti con questo messaggio “Mi sono divertita tantissimo, ma mi levi una curiosità: cosa c’entra il nostro lavoro in fabbrica con la luna?”.
Posso portare altri mille esempi di seminari di forte impatto o outdoor avvincenti, che non sono in grado di generare riflessioni sul proprio status quo, né tantomeno i primi passi verso cambiamenti organizzativi o comportamentali. Ecco la vera difficoltà: avvalersi delle emozioni positive generate per raggiungere gli obiettivi formativi condivisi.
Facciamo un esempio del Team work Change Project. La formula migliore è di farlo partire con una giornata di outdoor, finalizzata ad abbassare le difese interpersonali, soprattutto quelle gerarchiche. Segue poi un modulo teatrale dove tutti i partecipanti simulano situazioni di lavoro intese a drammatizzare i comportamenti sbagliati nel team, ad esempio “Perché non mi hai informato?”, “L’ho comunicato al capo è lui che ti doveva informare?”. Arriviamo infine al modulo razionale che si avvale della consapevolezza creata nelle prime due giornate per condividere col gruppo un codice deontologico dei comportamenti di eccellenza nel team, fissando le modalità di monitoraggio dello sviluppo del gruppo stesso nei prossimi mesi.
Riassumendo un buon progetto deve essere costruito ad hoc sulla need analysis del cliente. La formazione non è altro che uno dei tanti strumenti utilizzabili, insieme al testing iniziale, al coaching, alla consulenza, ai focus group ecc. Occorre prevedere fin dal principio più momenti di confronto con i referenti aziendali in un’ottica Lean. Il progetto diventa una sorta di vero e proprio Minimo Prodotto Fattibile che prevede più strategie bilanciando la parte razionale con quella emotiva. Gli obiettivi devono essere estremamente chiari al progettista e quindi ben comunicati al docente e infine al gruppo discente. La validazione del percorso è a carico dell’azienda; è responsabilità dell’azienda in un processo dialogico e interdipendente con il progettista stesso.
Quando non si ha allineamento con l’azienda non si ha progetto validato e quindi si ha improvvisazione negli intenti.
Nelle good paractise di un buon progetto non possiamo tralasciare la logica tipica delle bilance score-card nelle quali le competenze si legano alle KPI e queste ultime ai risultati economico finanziari in una logica formativa che massimizzi i risultati di breve e di lungo periodo. In questo contesto il progetto formativo deve generare un impatto per quanto possibile misurabile nei tre livelli (competenze, KPI e, dove possibile, performance economico-finanziaria conseguente).
La stessa valutazione dei risultati troppo spesso circoscritta alla simpatia del docente e dello show deve passare dal raggiungimento di obiettivi misurabili condivisi con l’organizzazione.
Da queste good practise nasce il ruolo redivivo del buon formatore all’interno di un buon progetto.