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numero 69 - luglio 2019

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Conflitti distruttivi? Impara la critica costruttiva

Conflitti distruttivi? Impara la critica costruttiva

Per gentile concessione di Raffaello Cortina pubblichiamo un estratto dal volume Comunicare in modo etico, di Maria Teresa Giannelli. Con l’autrice, Hogrefe Editore sta realizzando un progetto di formazione rivolto ai professionisti sulla comunicazione positiva e la trasformazione dei conflitti in dialoghi. Clicca qui per saperne di più.

Di solito si combatte la propria fragilità, nascondendola, o all’opposto sfidandola, mettendola alla prova. Da questi inconsci tentativi di proteggersi, hanno origine molti comportamenti comunicativi disfunzionali. Ci si può chiudere o isolare, ma si può fare di peggio, come criticare o attaccare l’altro. Ciò che spinge a criticare è, per molti di noi, la paura inconscia di non essere in grado di tollerare le critiche o il dissenso altrui. Si crede, ingenuamente, che essendo i primi ad attaccare, l’altro sarà troppo occupato a difendersi, per poter aggredire a sua volta. A indurre verso una tale illusoria strategia è quella parte mai cresciuta che ragiona secondo logiche infantili che negano l’altro e oscillano tra l’impotenza e l’onnipotenza. Cadere in questo inconsapevole inganno può costare caro in molte situazioni.

In alcune persone agisce un meccanismo psicologico che fa sì che si sentano meglio quando sono impegnate a disapprovare gli altri: un comportamento questo, che permette loro di distogliere l’attenzione critica da se stessi, spostandola su chi hanno di fronte. Tutti operiamo delle proiezioni e, più spesso di quanto si creda, proiettiamo sullo specchio che è l’altro proprio ciò che non sappiamo vedere o accettare di noi. Quando sistematicamente ci accade di criticare, c’è da chiedersi se il vero oggetto di disapprovazione non siamo noi stessi, se c’è qualcosa di noi che non ci convince più ma che non abbiamo il coraggio di vedere lucidamente né di cambiare. Questa debolezza, questa resistenza al cambiamento per chiamarla con il suo vero nome, porta a utilizzare l’altro come un vero e proprio specchio su cui proiettare, in modo inconsapevole, quelle fragilità o incapacità che proprio non si accettano, credendo illusoriamente di “allontanarle” da se stessi. Se poi si riconosce a qualcuno la capacità di mettere in atto quei comportamenti che risultano difficili o impossibili da adottare, è inevitabile che non si riesca a resistere alla tentazione di farne l’oggetto preferito dei propri strali. Ma così facendo si mette a dura prova la relazione, senza ottenere un reale vantaggio se non quello di una momentanea rivalsa.
Chi viene criticato, attaccato, come già detto, non può che fare il suo mestiere di accusato che si difende come meglio può, magari attaccando a sua volta. Ed ecco che la strategia infantile risulta perdente, fallisce il suo scopo, mettendoci proprio nella condizione di accusati da cui volevamo proteggerci. Chi più chi meno, abbiamo tutti sperimentato situazioni del genere. Non sarebbe meglio imparare a evitare questo genere di esperienza? E con questo non intendo dire che non vadano mai formulate delle critiche, né che ci si debba impedire di esternare il dissenso, la disapprovazione o l’irritazione verso certi comportamenti, perché allora si rischierebbe di mancarsi di rispetto. Sono convinta che si possa manifestare qualunque opinione, a patto di saperlo fare e che occorra allora imparare a formulare le critiche in modo responsabile ed efficace.
Se c’è una circostanza in cui non ci si può permettere di essere poco responsabili è proprio quella in cui si sta per formulare una critica: bisogna tener presente che quello è, per chi la riceve, un momento delicato in cui può sentire minacciata la sua immagine. In genere, quando la propria immagine viene minacciata, ci si mette sulla difensiva, quando viene danneggiata ci si sente feriti e si passa all’attacco. Se poi si pensa che, in ciò che l’altro dice, ci sia del vero, si reagisce in modo proporzionale a quanto ci si sente toccati dalle sue affermazioni.
La scelta del luogo e del momento in cui esprimere una critica è cruciale. Sarebbe meglio, quando è possibile, mai in presenza di terzi: il danno all’immagine verrebbe moltiplicato per il numero dei presenti, e se tra i presenti ci sono persone significative per chi viene criticato, c’è da aspettarsi reazioni pesanti anche se non immediate. Se qualcosa nel comportamento di un amico vi è dispiaciuto, è meglio far passare un po’ di tempo, sempre che sia possibile, prima di farglielo notare. Quanto più l’evento è vicino, tanto più emotiva sarà la critica e difensiva, di conseguenza, la reazione. Una distanza temporale e magari spaziale, sia pur minima, consentirà a entrambi di operare un certo distacco dall’accaduto e di poterne quindi parlare in modo più equilibrato e sereno. La scelta del momento ha a che fare anche con le caratteristiche della persona che si intende criticare e della relazione che si ha con lei. Persone fragili o con scarsa consapevolezza tendono a sviluppare meccanismi di difesa che rendono loro difficile ricevere e utilizzare il feedback degli altri. In costoro sarà predominante il bisogno di venire rassicurati e sostenuti e di vedere continuamente confermata la propria immagine. Se ci si rende conto che la persona cui si sta per muovere un appunto è in una condizione di fragilità, perché magari sta attraversando un periodo difficile, ci si potrebbe chiedere se è proprio necessario farlo in quel momento, rischiando di ferirla anche al di là delle proprie vere intenzioni. Tutti sappiamo che ci sono momenti in cui siamo più aperti alle critiche e altri in cui anche una piccola osservazione ci fa mettere sulla difensiva.
Ci sono poi persone come i figli, i genitori, i collaboratori, su cui esercitiamo una qualche forma di potere e che quindi temono particolarmente il nostro giudizio. Con costoro è opportuno usare molta attenzione nel formulare una critica. Intendiamoci, non penso che sia bene tacere ai genitori anziani, per esempio, che il continuo lamentarsi ci allontana da loro, ma penso che sia necessario dirlo scegliendo un momento opportuno e rassicurandoli contemporaneamente sul nostro affetto. Qualunque critica verrà accettata più facilmente se preceduta da un segno di apprezzamento per la persona a cui la rivolgiamo, in modo da rassicurarla, anticipatamente, sul fatto che la nostra osservazione non intaccherà la considerazione che abbiamo di lei. Il modo in cui verranno accolte le nostre osservazioni dipende non solo da ciò che diremo, ma anche dal “quando” e dal “come” lo diremo.
Nel formulare una critica dobbiamo tener conto che ciascuno può accettare di mettere in discussione ciò che fa, ma non ciò che è. Per questo una regola di base è quella di centrare le critiche su un’azione, un comportamento, una affermazione, piuttosto che su caratteristiche stabili della personalità. Questo può non essere facile, soprattutto in culture come la nostra in cui non si è abituati a distinguere la persona da ciò che fa.
Se un collega di lavoro, durante una riunione, ha alzato la voce e si vuole farglielo notare, si hanno maggiori probabilità che accetti l’appunto se gli viene mosso in un secondo momento, dicendo: “In quella riunione hai alzato più volte la voce”, piuttosto che se lo si apostrofa immediatamente come aggressivo o maleducato. È più facile mettersi in discussione se un comportamento errato viene giustificato dalle circostanze, ed è quindi suscettibile di cambiamento, piuttosto che se ci vengono attribuiti tratti stabili e permanenti del carattere.
Le critiche possono essere costruttive o distruttive. Quelle distruttive sono in genere dettate da emozioni di rabbia, rancore, vendetta, o dal bisogno di esercitare un potere sull’altro. Avere un atteggiamento responsabile nel momento in cui si sta per muovere una critica, comporta quindi rendersi conto di quali sono le proprie intenzioni velate. Vogliamo manipolare l’altro? Farlo sentire in colpa? Mettere in atto un ricatto emotivo?
Se stiamo per dire: “Sai quanto contavo su di te. Mi hai molto delusa”; oppure: “Dopo tutto quello che ho fatto per te, tu ti comporti così?”; o ancora: “Se ti preoccupassi di me, non l’avresti fatto!”, è evidente che il nostro desiderio, sia pure inconsapevole, è quello di esercitare un potere sull’altro, facendolo sentire in colpa e mettendolo quindi nella posizione di chi ci deve qualcosa.
Le critiche costruttive, al contrario, sono quelle in cui ci si preoccupa di “salvare la faccia” di chi ne è oggetto. Cosa che si può ottenere, per esempio descrivendo il comportamento criticato come se si trattasse di un atto involontario, e non insinuando che sia stato compiuto deliberatamente. Un altro modo può essere quello di sottolineare che il comportamento che stiamo criticando è molto diffuso e che anche noi, a volte, lo abbiamo messo in atto. Si tratta insomma di alleggerire per l’altro il peso della responsabilità, magari assumendosene una parte. “Forse, se non ti avessi messo fretta, avresti potuto esaminare meglio quelle tabelle” funziona di più che “Il fatto è che non hai esaminato bene quelle tabelle!”. Di fronte a quest’ultima osservazione l’altro è portato a pensare: “Se me ne avessi dato il tempo, lo avrei fatto”; mentre di fronte alla prima può pensare: “Certo, c’era poco tempo, ma potevo farlo lo stesso”. La responsabilità viene accettata più facilmente se è condivisa, come è giusto che sia, trattandosi di una rel-azione e quindi di un sistema caratterizzato da circolarità ricorsiva.
Quando è possibile, è bene proporre una soluzione. Del resto, se non ve n’è alcuna o se non se ne vede una, forse c’è da chiedersi quanto valga la pena di sollevare la questione. Si può valutare che sollevarla potrebbe evitare che si verifichi di nuovo, ma allora, a maggior ragione, è necessario che la critica venga compresa e accettata. Per questo, oltre a essere formulata nel modo e nel momento opportuno, deve essere ragionevolmente fondata. Una cosa che riesce spesso difficile è distinguere i fatti dalle inferenze o interpretazioni che ne diamo.13 Se un collaboratore è mancato a una riunione, il fatto è la sua assenza, mentre la deduzione che, così facendo, voleva metterci in difficoltà è una interpretazione che può rivelarsi infondata.
Mettiamoci ora, per un momento, nei panni di chi viene criticato. Anche qui si tratta di assumersi delle responsabilità.
Quanto più si rifiuta una critica, tanto più l’incapacità di accettarla si trasforma in un problema. Quanto prima ci si decide ad accoglierla, tanto prima si può utilizzarla per ristabilire una comunicazione costruttiva. Quando resistiamo a dare ascolto a ciò che gli altri ci rimproverano, questi insisteranno nel dirci proprio quello che non vogliamo sentirci dire e la comunicazione resterà bloccata o limitata. Quando poi qualcuno ci critica per una cosa da poco, il nostro rifiuto di accettarne il parere trasformerà un dissenso superabile in una questione rilevante che a poco a poco ci allontanerà.
In tutti i casi le difese, quando sono eccessive, impegnano una grande quantità di energia, provocando un’ansia secondaria dovuta al sentirsi sprovvisti delle forze che occorrono per fronteggiare la situazione. L’attenzione rimane bloccata su come evitare o mitigare un nuovo attacco, o su cosa fare per ristabilire un’impressione positiva nell’interlocutore, piuttosto che occuparsi del contributo che quella critica fornisce al miglioramento di se stessi.
Una condotta difensiva genera ascolto e reazioni difensive che, a loro volta, aumentano il livello di difesa iniziale, innescando una spirale viziosa di comunicazione disfunzionale.15 La disfunzionalità nella comunicazione è dovuta non tanto alla presenza di fattori emotivi, peraltro inevitabili, quanto alla loro strenua negazione e ai conseguenti meccanismi di difesa che questa genera. Sapersi assumere la responsabilità di accettare le critiche che ci vengono mosse è segno che non abbiamo bisogno di attivare difese, perché la nostra autostima non è fragile o precaria. E dimostra rispetto verso noi stessi e verso l’altro.
Le critiche sono essenziali se vogliamo sapere come gli altri ci vedono e come interpretano i nostri comportamenti. Per ciascuno di noi, una critica fondata costituisce un’importantissima occasione di miglioramento. E chi non ha bisogno di migliorarsi? Chi può permettersi di non tener conto del parere degli altri? Ma davvero pensiamo di essere infallibili?

Da M.T. Giannelli (2006). Comunicare in modo etico. Un manuale per costruire relazioni efficaci (pp. 160-164). Milano: Raffaello Cortina.