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numero 69 - luglio 2019

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Rassegna stampa

Rassegna stampa #69

Rassegna stampa #69

Intelligenza Emotiva nell’ambiente di lavoro

Lo psicologo Daniel Goleman definisce l’intelligenza emotiva come la capacità di riconoscere sentimenti e emozioni propri e altrui e di saper gestire quest’ultime in modo efficace. Nel campo delle risorse umane molte ricerche hanno indagato la relazione tra essa e la soddisfazione lavorativa (job satisfaction), che è risultata essere positiva. Gli autori però hanno individuato un fattore interveniente in questa relazione: il work engagement, ossia uno stato mentale positivo e di soddisfazione nei confronti del proprio lavoro, composto da tre elementi quali: immersione, vigore e dedizione. Nel campione di 504 impiegati spagnoli provenienti da diversi ambiti lavorativi, il fattore più decisivo trovato dagli autori è la dedizione. Coloro che possiedono quindi una alta IE riportano alti valori di vigore, immersione e dedizione e vivono il proprio lavoro con maggiore entusiasmo, grande energia e ispirazione, mostrando atteggiamenti positivi sul posto di lavoro, un migliore tono dell’umore e una maggiore soddisfazione, tutti elementi che favoriscono la volontà di investire se stessi nel proprio lavoro. Usare, nella selezione del personale, dei metodi e degli strumenti che considerino l’intelligenza emotiva e il work engagement può aiutare a creare delle corrispondenze tra le risorse emotive e motivazionali degli impiegati e i fattori lavorativi, accrescendo le possibilità per i singoli di provare soddisfazione nel proprio lavoro. Le organizzazioni in generale dovrebbero attivarsi per garantire un ambiente di lavoro favorevole ai propri impiegati, e proporre dei corsi sulle abilità emotive è sicuramente una valida via per diminuire i rischi associati ad atteggiamenti negativi e allo stress lavoro-correlato.

Extremera, N., Mérida-López, S., Sánchez-Álvarez, N., & Quintana-Orts, C. (2018). How Does Emotional Intelligence Make One Feel Better at Work? The Mediational Role of Work Engagement. International journal of environmental research and public health, 15(9), 1909-1921.

 

Adolescenza e sexting 

Lo studio si occupa di indagare il fenomeno del sexting tra gli adolescenti. I risultati evidenziano che è presente un’associazione significativa tra la gravità percepita del fenomeno e la probabilità di adottare comportamenti a rischio (bere, fumare, avere rapporti sessuali non protetti). Chi ritiene il sexting un comportamento poco grave, vi ricorrerà più facilmente. Una variabile importante è quella del tempo online, per cui tanto questo è maggiore, tanto lo saranno le condotte a rischio. Inoltre, sembra che si trascorra molto tempo online se si hanno scarsi livelli di autostima (più frequente nelle ragazze) o se si soffre di stati depressivi (anche qui più diffusi nelle femmine). I fattori protettivi per questo tipo di comportamento sono un buon livello di autostima, fiducia nelle proprie abilità relazionali, una dimensione etico-morale del proprio comportamento (soprattutto rispetto al difendere la propria reputazione tra i conoscenti) e senza dubbio un’educazione sull’uso appropriato dei social e dello scambio di informazioni che avviene in internet. Dal punto di vista educativo è risultato molto importante anche il ruolo dei genitori, poichè esiste una relazione tra stili eccessivamente autoritari (con significative punizioni in seguito a comportamenti a rischio) con comportamenti di dating violence e aggression nei figli. Il genitore quindi può essere un decisivo fattore di protezione per i ragazzi, aiutandoli anche a capire come utilizzare al meglio il proprio tempo in rete e limitare il pericolo di adottare comportamenti rischiosi per il loro sviluppo.

Migliorato, R., Fiorilli, C., Buonomo, I., Allegro, S., & Ligorio, M. B. (2018). Sexting: uno studio esplorativo su adolescenti italiani. Qwerty-Open and Interdisciplinary Journal of Technology, Culture and Education, 13(2), 66-82.

 

Caregiving e terza età

In un rapporto della Commissione europea emerge che l’Italia detiene il primato per anziani non auto-sufficienti non coperti da nessun tipo di assistenza formale (domiciliare o in casa di cura). Di conseguenza il nostro Paese ha un grande numero di caregiver informali, spesso scarsamente addestrati al mestiere e spesso assunti in modo irregolare. Questo crescente bisogno di cure per le persone anziane è stato fronteggiato in maniera diversa nei vari paesi europei. In Europa settentrionale sono nate delle riforme che affidano alle Istituzioni la Long Term Care del parente, in questo modo la cura della persona non grava sulla sua famiglia. In Europa meridionale invece i finanziamenti pubblici per questo genere di servizi sono molto ridotti, obbligando, soprattutto nelle famiglie meno agiate, i figli a fare da caregiver al malato. I figli, o meglio le figlie nella maggior parte dei casi, si trovano quindi costretti a ridurre il proprio orario di lavoro (se non direttamente abbandonarlo), rinunciando ad una parte di reddito familiare, per stare accanto al proprio parente. Ciò però ha delle conseguenze sulla salute psico-fisica del caregiver: alcuni dati riportano l’emergere di stati depressivi, sentimenti di inadeguatezza e isolamento, aggravati anche dalla grande fatica di accudire un anziano non autosufficiente in contemporanea a figli non ancora autonomi. Risulta quindi evidente la necessità di ridurre la frammentazione dei servizi sociali e sanitari per la cura del malato e erogare finanziamenti che possano realmente coprire le necessità delle famiglie.

Brenna, E., (2018). Cura degli Anziani, scelte lavorative e salute, in Cappellari, L., Lucifora, C., Rosina, A. (ed.), Invecchiamento attivo, mercato del lavoro e benessere, Bologna: Il Mulino, pp 107- 126.

 

Le opinioni di educatori e insegnanti nei confronti dei plusdotati e della loro educazione

La plusdotazione è un’abilità naturale e, come per i disturbi dell’apprendimento, i bambini in queste condizioni richiedono un contesto e delle condizioni particolari per favorirne lo sviluppo. Purtroppo però gli studenti plusdotati nella gran parte dei casi vedono ignorati i propri bisogni educativi e quindi non riusciranno a raggiungere il massimo del loro potenziale. Inoltre a livello emotivo e sociale questi bambini tendono a percepirsi diversi dai compagni di classe e per non sentirsi stigmatizzati o etichettati come “strani” possono riadattare il proprio atteggiamento e il proprio comportamento per non apparire come dotati, ottenendo anche volontariamente punteggi più bassi in un test. Se nelle scuole l’obiettivo è di formare gli alunni a livello didattico e non, gli insegnanti devono essere in grado di contrastare eventuali stereotipi negativi, per evitare che lo stigma finisca per diventare parte integrante dell’identità del bambino gifted. In questo articolo sono state indagate le opinioni di insegnanti e educatori italiani di un campione relativamente piccolo, attraverso il Questionario delle Opinioni sugli Studenti Plusdotati e sulla loro Educazione di Gagné-Nadeau (Opinions about the gifted and their education; Gagné, 1991). Da ciò che emerso nelle risposte, i punti fondamentali su cui lavorare sono la promozione della conoscenza della giftedness, per fare in modo che il bambino comprenda il suo dono e si formi un’identità, il lavoro sulla devianza sociale e sulle eventuali aree deficitari del bambino e infine il coinvolgimento dei genitori nel percorso educativo. 

Olivieri, D. (2018). Un’indagine sulle opinioni di educatori e insegnanti nei confronti degli studenti plusdotati e della loro educazione A survey study of educators’ and teachers’ opinions about gifted students and their education, Formazione & Insegnamento, XVI (3), 291-313.