QI - Questioni e idee in psicologia - Il magazine online di Hogrefe Editore

Qi, il magazine online di Hogrefe Editore.
Ogni mese, cultura, scienza ed aggiornamento
in psicologia.

numero 47 - maggio 2017

Hogrefe editore
Archivio riviste

Tema del mese

Psicologia dell’emergenza: sfide e criticità per la professione

Psicologia dell’emergenza: sfide e criticità per la professione

Fatta salva l’autonomia e la specificità delle varie Regioni, che per legge sono autorizzate a muoversi come meglio ritengono, in quanto Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi non possiamo lasciare una rappresentazione di ciò che è attualmente in Italia la psicologia dell’emergenza, così disparata nel territorio. Un qualche minimo comune denominatore e qualche punto fermo che definisca meglio gli ambiti mi sembrano necessari, pena la perdita della nostra credibilità professionale. Perché, se da una parte dico che la psicologia dell’emergenza è un intervento di area di pronto soccorso (che è un’area specifica), e dall’altra dico che è un intervento a scuola fatto su casi di suicidio (che è un’altra area specifica), oppure da un’altra parte ancora dico che la psicologia dell’emergenza è solo l’intervento sulle grandi catastrofi…, penso che in ambito di rappresentazione della professione questo non rimandi a un’immagine molto credibile, né della professione né dei suoi organi di rappresentanza.

Per cui il primo punto da affrontare, da parte del CNOP, è proprio quello di definire almeno i limiti dell’intervento emergenziale.

L’altro punto è quello di definire un accordo ineludibile con le grandi associazioni professionali già operanti da anni in questo settore, e che si sono sapute guadagnare con il loro lavoro una notevole visibilità e apprezzamento istituzionale (Psicologi per i Popoli, ad esempio, mi risulta aver già ricevuto considerazione e stima particolare dalla Presidenza del Consiglio – Dipartimento di Protezione Civile, che la riconosce regolarmente a livello nazionale come suo principale interlocutore, privilegiato e specialmente qualificato, nel settore del supporto psicologico in emergenza), perché noi non possiamo sostituirci ad esse. E non avrebbe il minimo senso professionale creare un organismo che operi e normi in maniera scollegata dalle principali associazioni che lavorano da molti anni nel settore (e che hanno il vero know-how professionale di settore, probabilmente superiore a quello di molti rappresentanti ordinistici).

 

Non basta essere psicologi

Ritengo, invece, sia proprio di  competenza del CNOP avviare un’azione di tipo culturale rispetto a quello che gli psicologi possono fare ed offrire nell’ambito del sistema dei soccorsi, anziché assumere noi un intervento diretto (magari senza avere mai partecipato in prima persona ad un evento reale sul campo, o nemmeno ad un’esercitazione), sia nella formazione che nella propulsione di interventi di emergenza; settore in cui molti, intuendo la moda, si sono purtroppo lanciati in maniera disordinata ad offrire formazioni brevi ed “arrangiate”, o ad ipotizzare, in maniera infondata, chissà quali ipotetici agganci politico-istituzionali o commerciali.

Si tratta tra l’altro, e questo è da sottolineare con grande forza, di un settore complesso e trasversale, in cui non basta assolutamente la “semplice” competenza tecnico-psicologica, e non ci si può dichiarare “esperti” da un giorno all’altro, dopo brevi corsi teorici ma senza aver mai partecipato ad emergenze reali.

È un settore in cui non ci si può nemmeno muovere, pena un’immediata perdita di credibilità agli occhi degli enti e delle istituzioni del sistema dei soccorsi, senza aver prima conseguito un’adeguata formazione in termini di tecniche e logiche del soccorso organizzato, e di aver inter-operato fattivamente per un congruo periodo con gli enti (Croce Rossa, ANPAS, Protezione Civile, ecc.) che si occupano di soccorso in emergenza.

Ci sono infatti importanti questioni di sicurezza operativa, di tutela personale, di necessaria comprensione delle dinamiche funzionali dell’emergenza; questioni che non sono di competenza psicologica, ma che sono assolutamente necessarie agli psicologi che vogliano operare in tali contesti, difficili e non esenti da rischi.

Non basta quindi “essere psicologi”, per fare gli psicologi in emergenza, ed è pericoloso veicolare, anche solo implicitamente, questo errore logico ai colleghi; servono, come in tutte le altre professioni che si occupano di emergenza, percorsi formativi aggiuntivi nell’ambito tecnico del soccorso, di tipo extra-professionale. Sarebbe grave se noi per primi non lo riconoscessimo esplicitamente, e non avvertissimo e tutelassimo i colleghi in questo.

Anche i medici che lavorano in emergenza con il 118, o gli ingegneri che lavorano in emergenza con la Protezione Civile, non possono certo limitarsi alle loro competenze intra-professionali, ma devono sottoporsi a lunghi tirocini e formazioni aggiuntive di “tecnica del soccorso” anche estranee alla loro competenza professionale specifica, per poter poi essere riconosciuti come “medici dell’emergenza” o “ingegneri dell’emergenza”; la stessa cosa di certo non può non valere per gli psicologi, che altrimenti rischierebbero di ritrovarsi ad essere proprio i soccorritori più “disorientati”, i più impreparati (paradossalmente, visto quello che dovrebbe essere invece il loro ruolo) a decodificare correttamente la logica ed i significati delle situazioni di emergenza, ed i meno specificatamente qualificati tra tutti gli altri attori dello scenario emergenziale.

Sarebbe un contraccolpo di immagine molto grave davanti alle istituzioni del soccorso (molto serie ed esigenti, a questo proposito), ed esporrebbe i colleghi (e i loro eventuali pazienti) a inutili rischi personali, oltre che a standard sub-professionali di cura in situazioni critiche.

Un ultimo pensiero rivolto ai giovani colleghi è quello di non crearsi grosse aspettative professionali rispetto a questo ambito; l’Università attiva master e corsi di formazione e i giovani pensano che questo possa essere uno sbocco lavorativo immediato e diretto, ma dovrebbero sapere che master e corsi non sono sempre legati alla reale domanda del mercato.

Il grosso del finanziamento in questo ambito, in Italia, va ed andrà alle attività di volontariato qualificato e riconosciuto; quindi è pura disinformazione incentivare il pensiero che questo possa essere un ambito di lavoro permanente o in via di sviluppo.

E come rappresentanti istituzionali penso sia onesto fornire ai giovani colleghi una corretta informazione anche su questo.