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numero 49 - luglio 2017

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Patologia della leadership e del management

Patologia della leadership e del management

Nel mondo in cui viviamo sono sempre più numerose ed evidenti le situazioni organizzative che possono essere ricondotte in via principale, o come effetti secondari, a ciò che da tempo si indica come “psicopatologia del management e della leadership” e che, più di recente, ha ricevuto l’etichetta di toxic leadership, leadership tossica. Nonostante le evidenze, è troppo spesso sottovalutato il potere distruttivo che può avere un responsabile la cui personalità non sia “sufficientemente sana” e i cui valori di base non siano in linea con il “minimo richiesto” dalla civiltà occidentale per gestire se stessi in un contesto sociale ed organizzato allo scopo di raggiungere dei fini produttivi o di servizio.

In effetti, un tempo era consuetudine ritenere che la realtà delle organizzazioni fosse frequentata da soggetti manageriali “normali”, psicologicamente sani, adeguatamente adattati all’ambiente e ai ruoli, alle responsabilità e al mandato ricevuto. Coloro che dovevano essere selezionati dal punto di vista psicologico e valutati nel percorso di carriera sulla base delle prestazioni, erano soprattutto i giovani, i soggetti collocati nelle prime fasi di vita di lavoro e il middle management, ma una volta raggiunte posizioni organizzative apicali o, comunque, rilevanti, l’assessment psicologico-organizzativo non era più considerato necessario. Oggi qualche dubbio tende ad insinuarsi anche nelle mentalità più dure, quelle che danno importanza alle caratteristiche oggettive o esterne delle persone (competenze professionali, risultati di budget, titoli accademici) come se un buon manager fosse tutto lì, nel suo curriculum vitae da vagliare in termini “oggettivi”. E di fronte a comportamenti manageriali aberranti e a stili di leadership altamente destabilizzanti (per le persone che li subiscono) si sente ancora affermare che comunque, dopotutto, “Quel manager è un bravo professionista!”, un buon conoscitore dell'azienda, lavora molto ed è sempre disponibile… Tradotto in altre parole, si preferisce chiudere gli occhi sulle componenti soft dell'uomo-al-lavoro, privilegiando elementi che però nulla hanno a che vedere con la (relativa) sanità mentale e comportamentale della persona che occupa un ruolo di responsabilità.

Peraltro, l’etichetta di soft skill ha ancora una volta posto in secondo piano la semplice realtà della necessità di occuparsi – non solo in termini di assessment, ma anche di training e di coaching – delle “qualità psicologiche” delle persone che lavorano, qualità che non sono affatto “soft” e che possono avere un impatto notevolissimo su un gran numero di variabili, compreso il risultato che l’organizzazione riesce a conseguire nel suo complesso. Se si avessero “occhi per guardare”, cioè conoscenze scientifiche e professionali per sapere dove guardare e capire ciò che si osserva, diverrebbe evidente il potere distruttivo che può avere un responsabile le cui personalità e comportamenti gestional-organizzativi non fossero “sufficientemente sani”.

Ma nel momento in cui si guarda al mondo del lavoro come ad un sistema razionale, organizzato su ruoli e procedure, e frequentato da soggetti “normali”, fatica ad emergere l’idea che per prevenire il posizionamento di soggetti inadeguati nei gangli vitali dell’impresa (o della PA) sia necessario andare oltre la “valutazione empirica”, basata sul buon senso, sull’esperienza personale di chi sceglie le risorse, e su una miriade di altri fattori che non hanno alcuna correlazione con il criterio fondamentale di individuare una persona psicologicamente equilibrata, etica e quindi realmente funzionale al ruolo da gestire. Per non dire delle situazioni in cui sono scelti strumentalmente soggetti “miracolati” da poteri esterni. Come si nota costantemente vivendo le dinamiche dei sistemi e dei processi HR, la scelta delle persone – la tradizionale selezione del personale, l’assessment psicoattitudinale, o comunque lo si voglia definire – sta alla base di tutto ciò che verrà dopo; formazione, sviluppo, meritocrazia… Se si commette un errore nella fase iniziale non sempre (o quasi mai) sarà possibile rimediare esclusivamente agendo sulle leve della formazione e della consulenza manageriale.

 

Nevrosi organizzative

Per vivere in modo funzionale il ruolo manageriale e di leadership è utile riflettere sul fatto che leader e manager sono collocati “al centro” delle unità organizzative, “ai vertici” delle piramidi aziendali, e il loro modo di fare, di agire, di comunicare, è osservato e percepito dalle persone intorno a loro, ed ha un impatto notevole nell'ambiente socio-organizzativo. Manager maleducati, mentalmente chiusi, aggressivi e invasivi, motivazionalmente distruttivi, relazionalmente abrasivi, ottusamente legati alle logiche malate del “potere per sé” (cfr. Freeman, 1994), non dovrebbero idealmente esistere in un mondo del lavoro degli anni Duemila, orientato necessariamente al futuro e alla qualità/salubrità della vita in senso generale, e della vita di lavoro, nello specifico. Stili di leadership autoritari e massicciamente direttivi che possono avere un senso in circostanze assai specifiche – o che potevano avere una ragione in anni passati – s no oggi del tutto fuori contesto e fuori obiettivo, ma rimangono altamente presenti e pervasivamente attivi a causa della generale arretratezza della cultura manageriale nella quale viviamo.

Nel momento in cui si parla di psicopatologia della leadership e del management, si va molto, molto più in là dal denunciare la negatività degli stili di gestione autoritari o permissivi, lassisti o confusivi, che tutti noi conosciamo per averli studiati fin dagli anni Cinquanta sui libri della letteratura statunitense. Diviene inoltre necessario collegare a tali manifestazioni le cosiddette nevrosi organizzative (Kets de Vries e Miller, 1992). Ecco emergere un link che nessun “codice etico” può contrastare (Enron possedeva un eccellente codice di comportamento…), per il semplice fatto che le disfunzioni della personalità tendono a mimetizzarsi all’interno delle funzioni manageriali e della leadership: in superficie, un soggetto distruttivamente aggressivo può essere visto come assertivo e finalizzato, un personaggio manipolatorio e cinico come abile nella negoziazione, un ossessivo come un meticoloso supervisore, in un vuoto di sistemi valoriali e di consapevolezza autocritica, ormai spesso sostituiti dal totem del risultato-ad-ogni-costo (cfr. Allcorn, Baum, Diamond, Stein, 1996).

Le psicopatologie manageriali e della leadership, e le nevrosi organizzative, sono speculari.

È inevitabile che un manager caratterialmente instabile, o decisamente patologico, incida pesantemente sull’organizzazione, ben al di là del mostrare i classici stili di leadership disfunzionali (autoritario, lassista, paternalista). La leadership narcisistica, ad esempio, è frutto di un agglomerato complesso di caratteristiche soggettive che non sono affatto semplici da individuare se non da professionisti esperti in termini psicologico-organizzativo e clinici (Castiello d’Antonio, 2013). Né è lecito ritenere che l’eventuale inserimento di un soggetto patologico in un ruolo apicale possa essere controbilanciato dal buon funzionamento del team a cui è preposto: il potere di posizione che è nelle mani del manager o del leader può essere usato come una clava per bloccare, distruggere e reimpostare tutto ciò che “di buono” si è sviluppato fino a quel momento all’interno del gruppo di lavoro. Ed è proprio osservando tali dinamiche che, fin dagli anni Ottanta sono state individuate le nevrosi organizzative declinate sui parametri classici della nosografia clinica: organizzazioni depressive, schizofreniche, paranoidi, isteriche, ossessive.

 

L’influenza del gruppo di lavoro e la responsabilità della selezione

È evidente che non si può dare per acquisito un rapporto lineare di causa-effetto tra psicopatologia del leader e nevrosi dell’organizzazione, in quanto numerose sono le variabili ambientali, situazionali e relative alle dinamiche dei gruppi di lavoro. Non solo i manager e i leader utilizzano, per così dire, la vita di lavoro come proiezione del proprioteatro interno: anche le persone che compongono le squadre di lavoro, i team, i gruppi di progetto, tendono a sviluppare visioni irrealistiche, fantasie di gruppo condivise, per mezzo delle quali sono espressi i sentimenti negativi più insidiosi quali l’ostilità, l’idealizzazione, l’invidia, la dipendenza, la rivendicazione demolitrice o l’attesa passiva. Naturalmente tra il capo e i singoli soggetti sui quali egli incide vi è la variabile “gruppo” ed anche su tale ambito andrebbe aperta una riflessione approfondita visto che, oggi, ben si conoscono le incredibili insidie che possono percorrere i gruppi di lavoro, solo apparentemente orientati ad un fine operativo-realizzativo, ma sotterraneamente percorsi da correnti emotive del tutto irrazionali. Ad esempio, quelle che sono definite “angosce persecutorie” ed “angosce depressive”, lungi dal rappresentare concetti astratti lontani dalla realtà della vita sociale (anche perché è proprio nella realtà della vita dei gruppi che sono state individuate), possono rappresentare delle chiavi di lettura preziose per non solo comprendere, ma anche prevenire, fenomeni degenerativi dei team di lavoro. In tale direzione, il fenomeno del mobbing – e, più in generale, tutti i fenomeni di sopraffazione nel mondo del lavoro (cfr. Kilburg, 2009) – insegnano molto, soprattutto se visualizzati nelle loro componenti collusive e di alleanze perverse tra soggetti che agiscono la propria aggressività in senso assolutamente demolitore e irriflessivo e la consueta presenza dei cosiddetti co-mobber. Il creare una situazione organizzativa in cui i valori di riferimento sono la lotta interna, la pressione interpersonale, il “fare e non pensare”, o l’assenza di comunicazione – si veda il caso del soggetto alessitimico (Caretti, La Barbera, 2005) – ha probabilmente concausato le moderne disfunzioni emotive e relazionali declinate nei concetti di bullismo aziendale, mobbing e bossing: in una parola, l'esercizio della violenza nel luogo di lavoro.

Credo che una forte responsabilità – in relazione al posizionamento in ruoli di responsabilità di persone psicologicamente insane – stia proprio nelle mani di coloro che si occupano di Selection & Assessment delle risorse manageriali (Castiello d’Antonio, 2012). I dipartimenti HR si sono spesso mossi in modo ambivalente su tali questioni. Se, da un lato, sembrano recepire il dovere di essere allineate con l'impresa ed il suo management anche quando questi creano in azienda un clima invivibile e distruttivo a livello umano (cfr. Stein, 2001), dall’altro mettono in atto una serie di funzioni e processi, quali l’Exeutive Coaching e il Diversity Management, che vorrebbero recuperare l’individualità e l’umanità del lavoro.

A fronte di norme e disposizioni che vogliono difendere la sicurezza e la salute del cittadino italiano che lavora, le modalità soft di gestione delle risorse umane, sia da parte del management esecutivo, sia da parte delle direzioni HR, non sempre appaiono consonanti: oggi si dà meno attenzione e spazio agli interventi preventivi – il cui costo è percepito come non valutabile e direttamente collegabile al “ricavo” – e meno di ieri si dà attenzione, ad esempio, all’accoglimento ed alla socializzazione dei neo-assunti, subito “messi a produrre”, alla valutazione e formazione dei manager intermedi, al controllo evolutivo di qualità delle persone poste negli iter di sviluppo.

Ma, al di là di questi esempi, penso che si possa riflettere su alcune tematiche di base e trasversali, tematiche che indicano il persistere e lo svilupparsi di quelle idee e di quei comportamenti che, a metà degli anni Ottanta, sono stati evidenziati essere alla base del cosiddetto Management by Stress, sostenuto dalla velocizzazione (cfr. Baier, 2004) e, successivamente, dalla globalizzazione del mondo del lavoro. Dunque, una delle risposte che si può offrire al fine di risolvere tali problemi, sta proprio nella prevenzione: prevenzione agita per mezzo delle metodologie psicologico-organizzative non solo di stampo sociale ma anche clinico e differenziale, ad esempio implementando la capacità diagnostica degli intervistatori professionisti dei servizi HR (Castiello d’Antonio, 2015), diffondendo la cultura del dialogo e della meritocrazia nei gangli vitali dell’organizzazione con opportune azioni formative rivolte ai capi intermedi, e seguendo il percorso evolutivo dei manager e dei responsabili con l’ausilio del counseling organizzativo e del coaching. 

 

Riferimenti bibliogrfici

Allcorn, S., Baum, H.S., Diamond, M.A. e Stein, H.F. (1996). The Human Cost of a Management Failure. Organizational Downsizing at General Hospital. Westport-Londra: Quorum Books.

Baier, L. (2004). Non c'è tempo! Diciotto tesi sull'accelerazione. Torino: Bollati Boringhieri.

Caretti, V. e La Barbera, D. (a cura di) (2005). Alessitimia. Valutazione e trattamento. Roma: Astrolabio.

Castiello d’Antonio, A. (2012). On the Validity of the Selection and Assessment Interview. The Industrial Organizational Psychologist, 50, 25-31.

Castiello d’Antonio, A. (2013). L’assessment delle qualità manageriali e della leadership. La valutazione psicologica delle competenze nei ruoli di responsabilità organizzativa. Milano: Franco.

Castiello d’Antonio, A. (2015). Interviste e colloqui nelle organizzazioni. Metodi per un dialogo efficace nei contesti organizzativi e istituzionali. Milano: Raffaello Cortina.

Freeman, H. (1994). Le malattie del potere. Milano: Garzanti.

Kets de Vries, M.F.R. e Miller, D. (1992). L’organizzazione nevrotica. Una diagnosi in profondità dei disturbi e delle patologie del comportamento organizzativo. Raffaello Cortina: Milano.

Kilburg, R.R. (2009). Sadomasochism, human aggression, and the problem of workplace mobbing and bullying: A commentary. Consulting Psychology Journal: Practice and Research, 61, 3, 268-274.

Stein, H.F. (2001). Nothing Personal, Just Business. A Guided Journey into Organizational Darkness. Westport-Londra: Quorum Books.