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numero 59 - luglio 2018

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Lo psicologo nelle organizzazioni: strategie di sopravvivenza

Lo psicologo nelle organizzazioni: strategie di sopravvivenza

La psicologia applicata ai contesti lavorativi rappresenta, oggi, un corpus disciplinare riconosciuto e legittimato dagli attori organizzativi stessi e più in generale dai contesti socio-economici.
Sono gli stessi imprenditori e manager che talvolta, forse presi dall’irrisolvibilità di alcune questioni, pronunciano la fatidica frase: “qua ci vorrebbe lo psicologo”.

Nel 1985 la mia immatricolazione a Padova coincise con l’avvio dell’allora nuovo ciclo di studi in psicologia fondato su una struttura 2+3 ovvero un biennio comune e un triennio di approfondimento specialistico tra cui spiccava, per la prima volta, insieme ai ben noti indirizzi clinico, evolutivo e di ricerca, l’indirizzo di psicologia del lavoro e delle organizzazioni.
Cinque anni dopo, mi apprestavo, dopo aver discusso una tesi, che oggi definirei masochistica (il titolo ne è a riprova “La rappresentazione sociale dello psicologo del lavoro in dirigenti di azienda”), a muovere i primi passi come psicologa nelle organizzazioni, a quel tempo del tutto ignare del ruolo e delle competenze da me spendibili.

Le competenze che caratterizzano la professionalità dello psicologo del lavoro che si occupa di consulenza organizzativa sono il tema di questo breve scritto. A prima vista potrebbe apparire un tema scontato e tutto sommato facilmente riconducibile all’output del piano di studi di riferimento ma a breve scopriremo che così non è.

Anzitutto partirei da un cluster di competenze riconducibili a quelle che comunemente caratterizzano la professione d’interprete e traduttore.
Mi riferisco all’abilità dello psicologo consulente delle organizzazioni di cogliere le specificità dei diversi idiomi organizzativi ovvero, al pari di un interprete, trasporre dei segnali (verbali e non verbali specifici) in un sistema di significati psicologici e successivamente di produrre un ragionamento psicologico con il linguaggio specifico e a-psicologico dell’interlocutore.
Potremmo tradurre questa competenza con uno slogan: vietato lo “psicologese”.
Il linguaggio della psicologia è caratterizzato da astrazioni e tecnicismi e se adottato, con interlocutori che non lo condividono ha due temibili conseguenze: oltre a generare nebbia e incomprensione conferisce allo psicologo un’immagine di inconsistenza e di superiorità intellettuale che vanifica l’obiettivo di instaurare un rapporto di partnership e fiducia con l’organizzazione.
Fruttero e Lucentini nel libro “I ferri del mestiere” (2003) traducono magistralmente questa competenza:

“A lui si chiede (...) di dominare non una lingua, ma tutto ciò che sta dietro a una lingua, vale a dire un'intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il mondo. E di sapere annettere questo mondo ad un altro del tutto diverso, trasferendo ogni sfumatura, registro, accento, allusione, tonalità̀ entro i nuovi confini”.

Un’altra competenza che spicca nel mondo della consulenza psicologica alle organizzazioni è la capacità di attivare, in modo preponderante il cosiddetto “pensiero flessibile bottom-up” (Mlodinow, 2018) rispetto al pensiero analitico top-down che ahimè è quello spesso più sollecitato dagli studi scolastici e accademici. La caratteristica preponderante di questo tipo di pensiero è di attivare un sistema di elaborazione delle informazioni non lineare, che permette di seguire simultaneamente diversi livelli di pensiero cogliendo anche segnali deboli “dal basso”. Le conclusioni si raggiungono combinando diverse informazioni, includendo aspetti enigmatici, valutati emotivamente, introducendo idee insolite e creative, tuttavia sempre supportati dal ragionamento analitico. Le qualità specifiche che caratterizzano tale pensiero sono:

  • Saper riconoscere e identificare modelli (pattern recognition);
  • Produrre idee e pensare in modo divergente (formulare idee alternative);
  • Essere cognitivamente dinamici ovvero generare idee rapidamente;
  • Riuscire a tenere insieme e conciliare idee opposte e apparentemente antinomiche: pensare in modo integrato.

Anche in questo caso volendo utilizzare uno slogan questo sarebbe: le cose non andranno così come le hai studiate.
Concludendo la competenza qui descritta è il saper defezionare in modo consapevole il set di conoscenze e di saperi acquisiti trovando strategie situazionali alternative per raggiungere con tragitti diversi lo stesso traguardo.

Chiudono questo elenco, giocoforza parziale, due abilità.

La capacità di superare la solitudine professionale alimentando il più possibile il confronto con altri professionisti portatori di sguardi e di esperienze diverse dalla propria cogliendo nella diversità degli stessi le opportunità anziché i limiti. Saper abbandonare le proprie certezze e “liturgie professionali” garantisce la capacità di crescita e innovazione e del resto è proprio questo che in qualità di psicologi chiediamo alle organizzazioni. Lo slogan in questo caso è: sii ciò che chiedi, cambia.

Ed infine quella che considero deontologicamente la competenza fondante ovvero promuovere il principio di autodeterminazione dell’organizzazione e più in generale delle persone, che in altre parole significa accoglierne le esigenze e, a meno che non ci siano elementi organizzativi insuperabili e/o ostativi in riferimento alla salute organizzativa e delle persone, cercare il più possibile di soddisfare tali esigenze conciliando le stesse con gli obiettivi psicologici individuati e le prassi istituzionali della psicologia.
In questo caso lo slogan diventerebbe: rimaniamo ecologici rispettando la natura organizzativa e dei singoli arricchendola senza snaturarla.

Bibliografia

  • Mlodinow, L. (2018). Il pensiero flessibile. Sperling & Kupfer.