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numero 58 - giugno 2018

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Intervista a Mauro Carbonetti

Intervista a Mauro Carbonetti

Il Gruppo Gabrielli è un esempio di come sia possibile crescere insieme al proprio territorio, alla propria gente. Una storia tipicamente italiana, la storia di una famiglia, oggi alla quarta generazione, che dal 1892 prosegue nel segno della qualità, dell'etica e della capacità di coniugare etica imprenditoriale, crescita e consolidamento della fiducia sia con i propri collaboratori, sia con i clienti.
Oggi l’azienda conta oltre 2.000 collaboratori e genera un volume d’affari superiore ai 750 milioni di euro. È presente nel territorio del centro-Italia con 210 punti vendita: le insegne Oasi ad indicare i superstore, le insegne Tigre per i supermercati e Tigre Amico per gli affiliati.
Mauro Carbonetti è AD del Gruppo Gabrielli, dal 2009, ruolo acquisito dopo aver svolto l’incarico di direttore commerciale, nei sei anni precedenti.
Ha sviluppato nel corso della sua vita lavorativa esperienze professionali e manageriali in ambito produttivo, distributivo e commerciale presso aziende italiane e multinazionali.
Nel gruppo Gabrielli sta facilitando con equilibrio il cambio generazionale, supportando l’azienda nei suoi numerosi cambiamenti culturali e di business.

D. Se dovesse spiegare cosa è per lei la cultura organizzativa come la definirebbe?

R. La cultura organizzativa è l’insieme dei miti, dei riti aziendali, delle sue consuetudini non scritte, dei valori praticati, del senso di appartenenza e a cosa questo si riferisca.
Tutti elementi praticamente invisibili a chi in azienda ci vive e lavora poiché sono una costante delle proprie esperienze, determinano l’espressione di numerosi comportamenti, soprattutto quelli di scelta. Questi elementi fanno da tappeto olfattivo, da costante, per lunghissimo tempo poiché sono praticamente fusi con l’identità dell’organizzazione stessa.
Identificare questi ingredienti, conoscerli, classificarli, non è mero esercizio intellettuale, ma anzi, è cruciale per comprendere lo svilupparsi di certe dinamiche, di certe scelte, del perché due progetti a parità di attenzioni dedicate hanno presa in modi così differenti. Uno viene sposato subito, l’altro invece stenta a decollare.
Conoscere la cultura organizzativa è fondamentale soprattutto quando si desidera imprimere all’intera azienda una spinta verso un cambiamento importante e allo stesso tempo non se ne vuole snaturare l’identità.
In Magazzini Gabrielli abbiamo sentito la necessità autentica di un cambiamento di questo tipo, un’evoluzione nel solco della nostra tradizione. 

D. Quali tappe avete percorso nel recente passato e come s’inserisce un’indagine di questo livello e profondità sulla cultura organizzativa? Quali informazioni sentiva di dover acquisire? 

R. Le tappe sono state molte, a partire dal 2011 si sono susseguite molte iniziative tra cui la mappatura dei ruoli e capacità, il bilancio delle competenze, la stesura della nuova mappa strategica che ha portato, dopo una lettura del contesto esterno e degli elementi distintivi, alla stesura nella nuova mission, vision e della Carta Valori del Gruppo.
Nel 2016/17 dopo queste iniziative, che hanno predisposto un certo tipo di attitudine e terreno, abbiamo compreso che era indispensabile descrivere gli altri elementi in gioco. Cioè comprendere perché noi “siamo fatti così”, perché ci comportiamo in questo modo, quanto della nostra storia determina il nostro approccio al business, alle relazioni, alla reputazione di cui godiamo.
Capire il nostro mix culturale organizzativo è diventato indispensabile.
Conoscerlo ci ha dato tutti gli elementi intangibili per poter spiegare cosa è accaduto e prevedere con maggiore lucidità cosa accadrà: come lanciare e gestire le iniziative future, quali elementi vogliamo tenere e custodire e quali abitudini invece possiamo modificare e cambiare senza lacerazioni. 

D. Com’è stata vissuta dalle varie fasce di popolazione l’indagine della cultura organizzativa?

R. Il programma ha previsto fin dall’inizio il coinvolgimento dell’intera popolazione aziendale, dal Board al personale di filiale.
Su questo siamo stati fermi e decisi perché, fin da subito, ci è parso evidente, conoscendo lo strumento, che un tipo di studio del genere non può essere fatto in modo selettivo solo su alcune fasce di popolazione perché si teme che “possa uscire qualcosa”.
La prospettiva doveva essere esattamente opposta, di ascolto e apertura. Anche perché ignorare la verità delle cose, non impedisce alle cose di essere vere.
È comprensibile reagire così, ma come AD, assieme alla proprietà, tra lo scegliere di edulcorare i dati e vedere invece tutti gli elementi del puzzle abbiamo fatto una scelta di responsabilità, una precisa scelta di campo.
Questo è stato premiante, perché tutte le persone si sono sentite coinvolte al 100%: hanno letto la coerenza del progetto anche quando hanno notato che il tempo dedicato all’indagine di cultura è stato considerato come un’attività lavorativa vera e propria.
Quindi se dovessi riassumere com’è andata in una battuta: 1871 questionari distribuiti, 1871 questionari compilati, di questi ultimi solo una manciata quelli scartati per eccessive omissioni. 

D. Quali informazioni avete ricevuto al termine dell’analisi dei dati. Che tipo di reazione avete avuto nell’osservarli?

R. Le informazioni sono veramente moltissime, probabilmente troppe se non si ha ben presente cosa si vuole ottenere dalla lettura dei dati.
La progettazione inziale con i consulenti è determinante in questo senso. Il rischio che si corre è altrimenti quello di perdersi tra la mole di dati e di possibili confronti che si possono fare incrociando fattori ed elementi di anagrafica.
I dati vanno quindi lasciati sedimentare, vanno digeriti, nessuna decisione va presa finché non si è potuto rielaborarli nei passaggi intermedi successivi al primo. Vanno favoriti passaggi e confronti interni, anche informali, riflessioni, questo consente di arrivare a delle sintesi e quindi al riconoscimento di alcuni pattern o schemi tipici interessanti per l’azienda e utili per indirizzare i suoi progetti.
Ci si può quindi concentrare sui dati veramente capaci di supportare decisioni solide, di attivare programmi che generano valore. 

D. Qual è stata la cosa che più vi ha sorpreso o colpito quando avete avuto modo di esaminare quanto emerso?

R. Ci siamo sorpresi della diversa lettura dell’azienda da parte delle varie anime aziendali. Uno scostamento percettivo comprensibile, giustificato dalla maggiore o minore vicinanza con il vissuto quotidiano.
Altro aspetto che ci ha sorpreso è stato la manifesta volontà delle persone di voler attivare dei cambiamenti sempre più rivolti verso una cultura tecnocratica del lavoro. Ovviamente è stata una piacevole sorpresa che, insieme all’elevato livello di engagement riscontrato, ci supporta nella scelta degli intenti strategici maggiormente sfidanti. Nella scelta di operare sul nostro mercato in un certo modo, privilegiando alcune scelte commerciali, piuttosto che altre. Ricercando le innovazioni in una direzione coerente, che aumenta la nostra reputazione. 

D. Consigliereste ad altre aziende di fare un’indagine di cultura organizzativa? Perché?

R. Lo consiglierei nel modo più assoluto, senza remora alcuna.
In particolare a tutte quelle realtà, anche piccole, che intendono o devono affrontare cambiamenti organizzativi, di business, ma ancora di più nei cambi generazionali.
È importante individuare partner affidabili che conoscano la propria realtà, ma che siano anche sufficientemente professionali da dare feedback spinosi quando servono e sappiano fare un passo indietro quando l’azienda non è pronta a ricevere quello specifico riscontro o non possa ancora fare quel passo di cui magari ha invece un grande bisogno. 

D. Come riassumerebbe il significato aziendale che ha avuto l’indagine di cultura organizzativa per voi?

R. Nella possibilità di comprendere, attraverso l’ascolto, ciò che diamo per scontato tutti i giorni, di vederlo elencato e misurato. Di poter aggiungere ad un indispensabile cruscotto di dati economici e di business anche un indicatore del modello culturale dominante, che diventa una sorta di faro puntato sul futuro.
Nel riuscire a progettare eventi comunicativi in modo più efficace per ottenere il massimo dell’engagement in tutti i vari progetti innovativi e di change management. 

D. Ora che siete in possesso di questa mappatura dei nuclei culturali dell’azienda come vi state approcciando alle nuove iniziative comunicative, manageriali ecc.?

R. Conoscendo i nostri nuclei culturali dominanti e avendo intenzione di arricchire tali nuclei di conoscenze nuove, integrando anche capacità che oggi sono fragili abbiamo creato una academy interna di sviluppo dei ruoli manageriali. Inevitabilmente siamo partiti da li, poiché per diffondere una cultura nuova, o come nel nostro caso per arricchirla, la strada è creare manager/responsabili più ricchi e a loro volta esempio dei comportamenti che desideriamo siano agiti.
L’academy è quindi un contenitore di formazione e studio progettato per rendere i ruoli più densi e le persone più forti e sicure, più veloci nel leggere l’azienda, il suo business, le sue scelte.