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numero 57 - maggio 2018

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L'intervista

Intervista a Alessandro Crisi

Intervista a Alessandro Crisi

In occasione della pubblicazione del nuovo manuale dedicato alla siglatura del test di Wartegg secondo il Crisi Wartegg System, abbiamo chiesto proprio al Prof. Crisi una riflessione sull'uso di questo test e dei test in generale, sulla psicodiagnostica e più in generale sulla formazione clinica all'uso dei test. 

D. Recentemente è uscita una nuova edizione del manuale del test di Wartegg, interamente dedicata alla siglatura secondo il metodo da lei ideato, il Crisi Wartegg System (o CWS): quali sono le principali novità di questa pubblicazione?

R. Questo manuale nasce dal desiderio non solo di rendere la siglatura del test di Wartegg più facile e accessibile ma, soprattutto, attraverso una rivisitazione attenta delle procedure descritte nelle prime due edizioni del manuale del test (Crisi, 1998, 2007), di fare in modo che essa risulti il più uniforme ed omogenea possibile tra gli psicologi che applicano il test di Wartegg. Nel perseguire tale obiettivo una particolare attenzione è stata dedicata alla coerenza interna della siglatura, introducendo, sulla base di sperimentazioni, ricerche e valutazioni in ambito clinico, ulteriori chiarificazioni sulle categorie di siglatura; migliorando la spiegazione di quelle precedenti ma, soprattutto, riportando un numero davvero considerevole di esempi pratici della siglatura. 
Tante novità introdotte nel corso della pratica clinica hanno dato origine all’idea di scrivere il manuale ma la motivazione più significativa che ha spinto me, Silvana Carlesimo e Sabrina Maio a farlo, è stata quella di rinforzare quanto più possibile l’attendibilità del test, aspetto fondamentale perché un test possa essere utilizzato in ambito professionale. A tale scopo, si pensi che, solo per riportare qualche esempio, ci sono nel testo circa 400 esempi pratici di siglatura, più di 1.500 vocaboli per la siglatura della Qualità affettiva, più di 700 definizioni sulla direzione del movimento. Insomma, un vademecum utilissimo per lo psicologo che vuole utilizzare, tra gli altri, il test di Wartegg.

D. In tanti anni di esperienza con il test di Wartegg, ha riscontrato dei cambiamenti nel modo di rispondere al test, ad esempio in termini di prevalenza di certi contenuti, fenomeni particolari, maggiore predisposizione o ansia verso certi riquadri ecc.?

R. Direi che, come c’era da aspettarsi, i cambiamenti più rilevanti si sono presentati principalmente nella siglatura delle risposte Popolari. Essendo esse strettamente legate al modo di pensare condiviso della cultura di appartenenza, sono molto soggette a variazioni legate al cambiamento di usi, costumi e mentalità delle persone. Faccio un esempio, negli anni ’80-‘90 nel Riquadro 4 veniva molto spesso raffigurata una figura geometrica, ultimamente molto meno. Da qui la necessità, condivisa con altri strumenti tra i quali il Rorschach, di rinnovare e aggiornare almeno ogni 8-10 anni l’elenco delle risposte popolari. 

D. Hermann Rorschach diceva: “I test psicologici sono porte della conoscenza attraverso cui ci muoviamo fuori dalla scatola e dentro la luce”. Come spiegherebbe questa frase a un giovane studente che si approccia alla psicodiagnostica?

R. Credo che questa frase piacerebbe molto al mio grande amico Stephen Finn che ha spesso espresso nei suoi workshop un concetto molto simile a questo.
I test, in generale, ci forniscono informazioni utilissime per la conoscenza delle persone che si rivolgono ad uno psicoterapeuta. Ci permettono di descriverne punti di forza e di debolezza degli esaminati, di comprenderne modalità di pensiero, la loro capacità di adattamento nel lavoro e nelle relazioni, la loro capacità di gestire gli stati d’animo, le emozioni, di superare ostacoli e frustrazioni. Ma, a mio parere, le tecniche proiettive, come il Wartegg, il Rorschach, il TAT, l’ORT e altri ancora, riescono a fare ancora di più aggiungendo a tali informazioni risposte uniche che, vuoi per la strada della metafora, vuoi per la strada di una produzione proiettiva, costituiscono dei punti fondamentali ed “illuminanti” nella storia dell’esaminato. Le risposte fornite ai test proiettivi sono delle porte aperte sulla personalità dei nostri clienti; esse sono degli “amplificatori di empatia” (Stephen Finn) dei quali non possiamo assolutamente permetterci il lusso di fare a meno.

D. In questi ultimi anni si stanno osservando tendenze molto diverse nel modo di guardare alla psicologia clinica e alla psicoterapia: da un lato una forte ricerca di metodi, protocolli e procedure standardizzate, dall’altro lato, la corrente derivata dalla psicologia umanistica che mette l’accento sul qui e ora della relazione oltre, ovviamente, alle correnti psicanalitiche. I test, in tutto questo, dove e come si collocano?

R. Francamente devo dire che da alcuni anni ho la forte impressione (peraltro ben documentata) che la ricerca di metodi quantificabili e standardizzati tipica della corrente che possiamo definire “metodo tradizionale”, si sia pian piano sempre più orientata ed irrigidita verso posizioni fortemente rivolte alla ricerca dell’oggettività assoluta. Questa ricerca dell’”oggettività a tutti i costi” che personalmente ritengo incongruente con l’essenza stessa della psicologia clinica (C.G.Jung: “La psiche è l’oggetto della psicologia e sfortunatamente ne è anche il soggetto“), sta, per certi versi e soprattutto nelle generazioni più giovani di psicologi, letteralmente “soffocando” quella parte della psicologia clinica e della psicoterapia che fa invece riferimento alla psicologia umanistica e che, al giorno d’oggi, trova una delle sue massime espressioni nella valutazione collaborativo/terapeutica (Collaborative/Therapeutic Assessment) ideata da grandi psicologi come Constance Fischer, Leonard Handler e Stephen Finn.
Come detto nella domanda precedente, i test, soprattutto i test proiettivi, costituiscono una base insostituibile di informazioni e ci permettono, se utilizzati come chiavi, di aprire quelle porte di cui si parlava in precedenza ed entrare in rapporto empatico con il paziente. Pertanto, essi trovano la loro collocazione principale nelle fasi iniziali di una richiesta di psicoterapia.
Permettemi di citare il prof. Lucio Pinkus, tra i fondatori della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica della Sapienza Università di Roma: “Il discorso sulla diagnosi (psicodiagnostica, ndr) viene accolto ancora oggi con un senso di fastidio e comunque con poca considerazione negli ambienti psicoterapeutici…. Ritengo che, per quanto riguarda la psicologia clinica, questo atteggiamento sia un errore rilevante….. in quanto è completamente privo di senso intervenire con un qualsivoglia strumento terapeutico senza aver preso conoscenza della situazione concreta su cui si vuole intervenire….E ancor di più perché rinunciando alla formulazione di un’ipotesi, intimamente connessa al processo diagnostico, rimane molto difficile poter poi verificare i risultati in sé stessi, sia l’incidenza dei fattori che hanno portato ad un determinato risultato.” (Pinkus, 1978).

D. Qual è il protocollo Wartegg che si ricorderà per tutta la vita?

R. Mi è difficile rispondere a questa domanda. Forse il modo migliore è raccontare un episodio avvenuto alcuni anni fa durante una lezione alla Scuola di Specializzazione. Uno studente mi chiese: “Professore ma dopo 40 anni che lo usa, ancora non si è stancato del test di Wartegg?”. Mi ricordo che gli risposi: “Mi stancherò il giorno in cui questo test smetterà di stupirmi”. Dico questo per dire che sarebbero davvero centinaia i casi che avrei piacere di ricordare.

D. In ambito clinico, se si intende somministrare una batteria di test, dopo quante sedute consiglia di farla?

R. Stiamo parlando di test ma non dobbiamo dimenticare che la fase di valutazione psicologica (o psicodiagnostica) si basa per prima cosa sul colloquio psicologico, strumento insostituibile dell’indagine psicologica. Pertanto, è bene che i test vadano collocati dopo un certo numero di colloqui per avere il tempo e il modo di comprendere appieno le motivazioni della richiesta che il paziente ci sta portando; di formulare ipotesi sulla natura e l’origine delle sue difficoltà; di scegliere quali test è meglio utilizzare e, infine, avere il tempo di costruire un rapporto pienamente collaborativo con la persona che siede davanti a noi. Quest’ultimo punto rappresenta forse il punto più delicato: riuscire a stabilire un rapporto empatico di collaborazione che porti il cliente a non sentirsi “un insetto al miscroscopio” ma, al contrario, parte attiva ed insostituibile del processo di valutazione.

D. Parliamo di restituzione e di stesura di una relazione psicodiagnostica in generale: dal suo punto di vista non mancano un po’ di indicazioni in termini di manualistica e linee guida nel panorama italiano?

R. Assolutamente! Forse a causa delle motivazioni riportate dal Pinkus ma nel nostro Paese la situazione inerente la psicodiagnostica è veramente in uno stato di preoccupante arretratezza se confrontata con quella di altri paesi. In Italia lavorare come psicodiagnosta è a parere di molti una specie di impiego secondario perché tutti possono usare i test psicologici. Attualmente sto insegnando all’Università di Denver, Colorado ed è incredibile verificare quanto spazio sia dedicato nel corso degli studi universitari in Psicologia alla formazione sui test che accompagna, mediamente, l’intero corso di studi. Formazione teorica ma, soprattutto, pratica che, dopo la fase di formazione, prevede, al pari di quello che succede per la psicoterapia, il ricorso a  continue supervisioni con colleghi psicodiagnosti più esperti (questo della supervisione è un’altra nota dolente del nostro Paese).
Personalmente, sono ancora “sotto choc” dopo aver visionato la biblioteca dell’Università di Denver sui test psicologici: centinaia e centinaia di articoli e pubblicazioni sul MMPI-2, sul Rorschach; sulla scala WAIS e così via. Ma, soprattutto, materiale testologico in quantità inaudita a disposizione degli studenti….quanti nostri studenti non hanno mai visto una scala WAIS?
Purtroppo, in Italia molti psicologi continuano a pensare che solo perché l’articolo 1 della legge sull’ordinamento della professione di psicologo parla dei test come strumento dello psicologo, questo autorizzi di fatto all’uso degli stessi senza aver effettuato un completo ed esauriente percorso di formazione. I test sono strumenti affascinanti è vero ma non sono facili.
Nella pratica clinica, della selezione e nel contesto giuridico-forense ancora si assiste ad improvvisati esperti in psicodiagnostica che, sulla base di una insufficiente e, talvolta, totale assenza di formazione ed esperienza nell’ambito della valutazione psicologica o psychological assessment, si lasciano andare ad interpretazioni letteralmente campate in aria esprimendo giudizi del tutto arbitrari sullo stato di salute psichica dell’esaminato con tutte le conseguenze facilmente immaginabili.

D. Qual è, secondo lei, la parte più difficile della fase di restituzione dei risultati di un test a un paziente?

R. La difficoltà di una restituzione corretta e soddisfacente per il cliente è legata in primo luogo al contesto in cui si verifica la valutazione stessa. Restituire i risultati in ambito peritale è molto più complesso rispetto al doverlo fare in ambito clinico. Per cui nel rispondere a questa domanda mi limiterò al contesto clinico. In genere un grosso scoglio è rappresentato dal linguaggio usato nella stesura di un report: troppo spesso di finisce per utilizzare un “gergo” scientifico che è del tutto oscuro per il paziente e quindi del tutto inutile per lui, talvolta offensivo se non addirittura dannoso (J.P. Sartre ha scritto “le parole sono pistole cariche…”). Infine, tornando su qualcosa accennato in precedenza: se si appartiene al metodo tradizionale la restituzione può diventare qualcosa di molto difficile e complesso ma se si appartiene al filone umanistico diventa il momento più interessante e profondo dell’intero processo di valutazione. Il momento in cui si chiude il cerchio di un’esperienza umana e professionale unica ed irripetibile.