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numero 55 - marzo 2018

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L'intervista

Intervista a Ada Moscarella

Intervista a Ada Moscarella

Ada Moscarella è psicologa e psicoterapeuta sistemico relazionale. In qualità di attuale Consigliera di Indirizzo Generale in ENPAP e co-fondatrice di Diventare Psicologo, la più grande community social di psicologi, le abbiamo chiesto una riflessione sull'immagine e valori legati alla comunità proffesionale degli psicologi e soprattutto su i principali ostacoli che si trova ad affronatre chi decide di svolgere questa professione. 

D. Come è cambiata, secondo lei, la professione di psicologo negli ultimi anni? E la percezione di questa nell’opinione comune?

La professione di psicologo nasce in italia a cavallo tra gli anni 80 e 90, soprattutto in risposta a esigenze legate all'ambito sanitario.
Da allora però la domanda di psicologia, da meramente legata alla richiesta di terapia, si è allargata ad altri contesti, incrociando sempre più domanda sanitaria e domanda sociale, orientandosi oltre che alla cura, alla prevenzione e alla gestione di processi.
In queste evoluzione si sta assiste a un curioso fenomeno: da un lato la domanda di psicologia è in aumento e diventa sempre più complessa, dall'altro gli psicologi sembrano essere in difficoltà nel cogliere, per lo meno tempestivamente, i rapidi mutamenti di questa domanda e spesso restano fossilizzati sulla domanda esplicita di cura.
Da questa stessa autoreferenzialità spesso gli psicologi rappresentano l'immagine di sé che la popolazione ha della nostra professione.
Recentemente l'ente di previdenza degli psicologi ha fatto una ricognizione preliminare di questa immagine, raccogliendo risultati che hanno un po' sorpreso: ad esempio risulta che in termini di efficacia e competenza gli psicologi sono meglio considerati rispetto agli psichiatri.
Così come pure risulta chiaro alla popolazione generale che counselor e affini hanno preparazione e competenze inferiori rispetto agli psicologi.
Analogamente, però, emerge nell'immagine indagata che gli psicologi sono percepiti come appiattiti sulla loro funzione di cura e non come gestori di processi e promotori di salute, questo anche con danno delle possibilità di lavoro e conseguentemente di reddito per gli psicologi.

D. Quali sono, dal suo punto di vista, le difficoltà maggiori con cui un giovane psicologo si deve confrontare?

Il giovane psicologo si trova innanzitutto a confrontarsi con due problemi.
Il primo è la grande complessità burocratica in cui in Italia si imbatte chiunque, a partire da liberi professionisti e imprenditori, piccoli, medi o grandi. Una burocrazia che aumenta, spesso considerevolmente e non sempre in maniera giustificata, le spese necessarie allo start up, oltre che richiedere skill che non sono acquisite durante il proprio percorso universitario.
Il secondo problema è che un giovane psicologo si trova a dover declinare le fondamentali conoscenze universitarie all'interno di un mercato del lavoro che muta velocemente, aprendo (e forse pure chiudendo) scenari anche nel breve periodo di un ciclo universitario.
È per questo che credo sia importante che un giovane psicologo possa essere accompagnato e poi impegnato all'interno di una comunità professionale trasparente e solidale, che condivida informazioni, esperienze, prassi, competenze; una comunità professionale finalmente consapevole che solo riunendosi intorno a questi principi la psicologia possa davvero affermarsi per il ruolo che non solo le compete, ma anche che è anche necessario all'interno della società civile.

D. A volte si ha la percezione che quando si diventa psicologi clinici sia implicitamente necessario frequentare una scuola di specializzazione. Tuttavia, questa credenza può essere fuorviante. Quali sono le attività che uno psicologo clinico può svolgere?

Le attività sono quelle declinate dalla legge fondativa degli psicologi, che però è una cosiddetta “norma in bianco”, ossia non entra nella declinazione operativa specifica della natura di ciascun intervento. Questo è stato finora declinato appiattendo la funzione dello psicologo interessato a lavorare in ambito clinico alla sola funzione psicoterapeutica, depauperando tutti gli interventi di prevenzione e sostegno che invece in questa epoca di relazioni liquide rappresentano interventi di elezione nelle fasi critiche, normative e paranormative, che sempre di più la popolazione si trova a vivere.

D. Lei è consigliere ENPAP (Ente Nazionale Previdenza Psicologi), è vero che gli psicologi conoscono poco l’attività di ENPAP? Quali sono i pricipali sevizi che l’Ente offre agli psicologi?

Magari non lo conoscono ancora bene, ma di certo nell'ultimo quinquennio ne sanno molto più di prima, dove per contattare l'ente bisognava utilizzare il fax...
Attualmente l'ente ha una complessiva strategia di comunicazione, rivolta agli iscritti e alla società civile, finalizzata a far conoscere i suoi servizi agli psicologi, che spesso ignorano una serie di tutele importanti per un libero professionista, ma anche a posizionare gli psicologi presso la società come professionisti in grado di farsi carico delle proprie responsabilità e portatori di valori e sviluppo. L'ente si occupa di previdenza, ossia della pensione degli psicologi liberi professionisti, e di assistenza.
L'assistenza è declinata secondo due tipi di percorso: uno di sostegno ai momenti critici e di fragilità che un professionista si trova a dover affrontare nella sua vita; un altro propulsivo, di sostegno alla carriera e alle scelte di investimento.
Tra le forme più importati di assistenza del primo tipo sono certamente l'indennità di malattia, di maternità, il pacchetto maternità che offre una serie di esami medici gratuiti o a prezzi fortemente agevolati, il sostegno alla genitorialità, accessibile anche alle coppie omosessuali, il sostegno alle spese funerarie per sostenere la famiglia anche nel triste momento del decesso dell'iscritto ed altre che speriamo il ministero approvi rapidamente.
A queste poi si accompagnano forme di assistenza orientate allo sviluppo professionale, come il microcredito, la formazione orientate all'imprenditoria ed altre che attendono il definitivo placet del ministero.

D. Come mai, dal suo punto di vista, gli psicologi hanno difficoltà a percepire gli Ordini come punti di riferimento per la professione?

Forse la domanda è da ribaltare: come mai gli Ordini hanno avuto per lungo tempo, e molti ancora ce l'hanno, la convinzione che in fondo il coinvolgimento degli iscritti non sia una cosa così importante? Negli anni l'hanno fatta da padrone assenza di trasparenza, autoreferenzialità, sostanziale chiusura comunicativa tanto agli psicologi tanto alla comunità civile.
Quello su cui mi sento di sollecitare la comunità professionale è la banale constatazione che l'Ordine è degli psicologi e che l'unico cambiamento di rotta possibile parte dalla partecipazione e dall'interessamento degli psicologi stessi.
Se attualmente abbiamo Ordini che non si sentono in dovere verso gli iscritti, prima ancora che in obbligo di legge, di informarli su come spendono i loro soldi, val la pena ricordare che queste persone hanno avuto un voto su una scheda elettorale e che un cambiamento si può fare sempre attraverso quella scheda e quella matita, che sono il momento di arrivo di un processo di partecipazione attiva che deve essere costante nel tempo. Altrimenti la vita è troppo facile per chi può farsi portatore di interessi personali o di piccole cerchie.

D. Parliamo di professioni non regolamentate. Quanto e come l’abuso della professione, secondo lei, impatta sul lavoro degli psicologi?

Sarò impopolare, ma credo che dal punto di vista di mera erosione del mercato, counselor e affini intacchino il reddito degli psicologi in modo non particolarmente significativo, anche se è difficile fare una stima, non esistendo dati affidabili né sulla loro effettiva numerosità né sui redditi medi. 
L'impatto è sulla tutela dell'utenza. Un'utenza che cerca aiuto in momenti di fragilità, che non sempre ha gli strumenti adatti per distinguere psicologo, psicoterapeuta, psichiatra, e accanto a questi deve pure orientarsi tra denominazioni “esotiche”, prive di formazione, di prassi deontologiche, persino non obbligate da vincoli di riservatezza.

D. Cosa consiglierebbe a un/a giovane psicologo/a neo abilitato per avviarsi alla professione?

Il primo consiglio valido va dato ai neolaureati innanzitutto: scegliete bene e svolgete con responsabilità il vostro tirocinio post laurea. Già da quel momento si gettano le prime basi per acquisire i primi strumenti pratici da spendere all'inizio della professione, il giorno dopo l'abilitazione. Acquisirli con sicurezza e consapevolezza, significa anche riconoscere il giusto valore al nostro lavoro e farci pagare di conseguenza, che è il primo consiglio che darei a un neoabilitato. Non lavorare gratis, avere sempre un monitoraggio costante sul proprio lavoro, le potenzialità, i margini di crescita e il suo valore, anche in termini di pagamento, oltre che di impatto sociale e personale sulla vita dei nostri pazienti o clienti.

D. Negli ultimi anni si sente parlare sempre di più di sedute psicologiche svolte via Skype. Qual è il suo pensiero a riguardo?

La psicologia e la psicoterapia online occupa al momento quasi la metà del mio tempo dedicato alla clinica. Viviamo in una società dai tempi sempre più stretti, sempre più precaria per storie, ma anche per geografie: è importante che gli psicologi siano capaci di evolvere la propria presenza al di là della mera condivisione di uno spazio fisico. Questo, naturalmente, non può tradursi in una semplice “riproposizione” di quanto accade vis a vis: il setting online è diverso non solo dal punto di vista materiale, ma anche nei suoi significati simbolici. In questi anni sarà importantissimo che gli psicologi possano produrre un pensiero complesso su queste e su tutte le altre prospettive che si stanno aprendo attraverso la realtà virtuale e la realtà aumentata, perché ci piaccia o no, presto queste tecnologie entreranno nella vita quotidiana delle persone e impatteranno sui nostri comportamenti, sui nostri processi emotivi e cognitivi ed inevitabilmente sulla domanda e sulle risposte che la terapia dovrà dare, nella sua forma e nella sua sostanza.