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numero 51 - ottobre 2017

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Essere psicologi: tra stereotipi, pregiudizi e false credenze

Essere psicologi: tra stereotipi, pregiudizi e false credenze

Ecco il mio segreto.
È molto semplice: non si vede bene che col cuore.
L’essenziale è invisibile agli occhi

Vorrei cominciare con una domanda (ed è solo la prima di molte che seguiranno) al lettore di questo modesto scritto: chi è lo psicologo, cosa fa e come?

Vi lascio tutto il tempo…

Bene! Se vi siete presi questa briga, avrete di certo riflettuto sulla domanda e mi auguro, sulla risposta che credete più corretta per descrivere questa figura professionale.

Potreste, voi stessi, che ora leggete questo articolo, essere psicologi e addirittura specializzati in qualcosa dopo la laurea (psicoterapia, master, ecc.) perché si sa che non si finisce mai d’imparare.

Forse a questo punto, se avete deciso che non vi ho ancora annoiato abbastanza, meglio che vada dritta al punto con due termini chiave:

  • pregiudizio: idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione e da indurre quindi in errore;
  • stereotipo: in psicologia, opinione precostituita, generalizzata e semplicistica, che non si fonda cioè sulla valutazione personale dei singoli casi ma si ripete meccanicamente, su persone o avvenimenti e situazioni (corrisponde al fr. cliché): giudicare, definire per stereotipi.

Ho scelto queste parole perché sono (purtroppo) il mio pane quotidiano. Per convincere i più scettici voglio portare un esempio accaduto da poco.

Sto parlando con Tizio da circa due minuti e inevitabile arriva la domanda sulla mia attuale occupazione. Io: “Sono una psicologa e psicoterapeuta, lavoro nel mio studio a Roma.” Ecco che Tizio mi guarda, gira la testa da un lato come fanno i cani quando non capiscono la situazione, e con mossa fulminea fa per sedersi accanto a me. Rimane, però, quel microsecondo di troppo piegato sulle ginocchia e prima di completare l’azione dice: “Che faccio mi siedo o invece mi stendo? Così mi psicoanalizzi?”. E non contento aggiunge: “quindi tu saresti una strizzacervelli?”.

Per spiegare il mio stato d’animo in quel momento, mi potrebbe sicuramente venire in aiuto un'immagine: la gocciolona di sudore che compare sulla testa dei personaggi dei cartoni animati giapponesi quando qualcosa va storto.

In ogni caso anche Tizio si è accorto del mio disappunto (un micro afflato di empatia?). Si fa più serio e si inerpica (sento le unghie stridere) in una di quelle domande di cui, come sapete, il vostro interlocutore non ascolterà mai la risposta. Nemmeno il minimo sindacale per darsi una parvenza di interesse a ciò che stai spiegando. Te ne accorgi dall’occhio vacuo.

Tizio, quindi, fa: “Ma allora qual è la differenza tra psicoanalista e psicoterapeuta? Sai! Non l’ho mai capita!”

 “Certo” penso “chissà quante volte ti sarai posto questo interrogativo”

A quel punto io inizio la mia filippica sulle differenze e so che non sta ascoltando.

Ecco questo è ciò che accade a chi fa questa professione: imbattersi in persone che, senza mai aver avuto occasione di parlare con uno psicologo, immaginano. E come se lo sono formato questo immaginario? La mia domanda è: “perché?”, anzi meglio: “come?”. Come accade che le persone, diciamo di cultura media e mediamente informate, ci percepiscono come indagatori, giudici inclementi delle loro debolezze, manipolatori, capaci di leggere nel pensiero e soprattutto capaci di spiegargli tutta la loro esistenza attraverso un fotogramma del sogno notturno che però “non è che si ricordano bene.” Forse gli psicologi sono i professionisti che possono lavorare sull’immagine che restituiscono agli utenti?

Il rischio è che appena presa la laurea in psicologia, ci si comporti come dei piccoli Freud e ci mettiamo a dispensare consigli e pretendiamo di voler curare tutti dalle loro “evidenti” patologie.

Ecco, con questo articolo mi piacerebbe stimolare una riflessione o anche un dibattito sulla nostra professione e sulle difficoltà che incontriamo a valorizzare noi stessi e a far arrivare questo valore agli altri.

Ecco una piccola raccolta di stereotipi e pregiudizi sullo psicologo che impediscono alle persone di chiedere aiuto quando ne hanno bisogno.

 

Lo psicologo costa troppo. Si! Lo psicologo ha un costo. La seduta e qualsiasi altro servizio che lo psicologo eroga si paga. 

Mettiamoci d’accordo: quando qualcuno dice: “Le sedute costano troppo”, cosa sta affermando? Potrebbe voler dire “Ho pagato troppo per ciò che ho ricevuto”, “Non vedo materialmente ciò che mi dai per quello che pago”, “La chiacchierata con te devo pagarla?”, “Non mi sento affatto meglio…” Sappiamo che il pagamento fa parte della terapia ed è uno degli elementi fondamentali per stabilire e definire il tipo di rapporto tra paziente e psicologo.

Quanti psicologi sono consapevoli dell’importanza che il denaro riveste per la terapia e hanno fatto pace con l’idea di farsi pagare o di gestire il pagamento come parte della costruzione del setting?

 

Dallo psicologo vanno i “matti.” “Non sono matto e quindi non ho bisogno di uno psicologo”, “Ce la posso fare da solo”, “Mi basta sfogarmi con un amico”, “Andrò in palestra e mi farà bene”.

Lo psicologo e lo psicoterapeuta lavorano principalmente con persone che hanno un buon contatto con la realtà e che tuttavia, a causa di come si relazionano a se stessi e agli altri, vivono la loro quotidianità in modo faticoso e poco soddisfacente. Per questo possono sperimentare sensazioni di disagio e malessere. Niente a che vedere quindi con la follia o la pazzia. Eppure questo stereotipo è difficile da debellare e ancora oggi, molte persone non chiedono aiuto e si vergognano di dire che hanno richiesto l’intervento dello psicologo.

Umberto Galimberti, nel suo Dizionario di Psicologia (1999), afferma che “follia” è un termine in disuso nel linguaggio scientifico e che rimane presente nel linguaggio letterario, sociologico e antropologico. Giovanni Jervis dice che la follia non è una finzione, ma la presenza della “malattia mentale” non può essere dedotta da alcun esame clinico o di laboratorio. La follia rimane quindi sempre un’ipotesi: e quindi ancora una volta, un giudizio (1975, p.2).

 

La psicoterapia dura per anni e ne diventi dipendente. Spesso, paradossalmente, la prima domanda che mi pone un paziente al primo incontro è “quando finisce la psicoterapia?”.

Questo interrogativo, nella sua semplicità, racchiude in sé tantissimi aspetti e contenuti, e apre una finestra su un tema cruciale come quello della dipendenza e le fantasie che da questa derivano. È un diritto del paziente poter parlare del tempo e della durata della terapia ed è dovere del terapeuta far presente che non è possibile determinarne a priori la durata perché dipendente da molti fattori. Ci sono tuttavia, alcuni tipi di approcci che per metodologia si definiscono “brevi”.

La psicoterapia è un dono che si fa a se stessi e quando decidiamo di usare questo metodo dobbiamo sapere che: “offre uno dei tanti modi con il quale le persone possono aiutarsi a cambiare, attraverso una relazione professionale di fiducia e confidenza” (Beitman e Yue, 2004). Esiste uno stato di autoconsapevolezza che, riconosciuto come un elemento cruciale (Greenberg e Watson, 2006) in tutte le psicoterapie, porta la persona che lo accresce a sperimentare uno stato di benessere. È necessario che ciascuno rispetti i propri tempi per lavorare su questo aspetto ed è necessario che sappia che non esiste un tempo uguale per tutti e che, invece, ciascuno ha il diritto e la libertà di camminare al proprio passo per evolvere.

 

In conclusione cosa possiamo trasmettere noi psicologi e psicoterapeuti ai nostri futuri pazienti affinché questi stereotipi e pregiudizi vengano superati? Qui sotto riporto una breve lista apparsa sul Monitor on Psychology (Brownawell e Kelley, 2011): è un’indicazione di come lo psicoterapeuta può prepararsi al suo lavoro secondo una ricerca di Bruce E. Wampold, professore di Psicologia all’Università di Wisconsin-Madison (2011), il quale ha risposto, tra le altre, a questa domanda: “cosa fa un buon terapeuta?”

  • Ha un insieme sofisticato di abilità interpersonali.
  • Costruisce fiducia, comprensione e convinzione da parte del cliente.
  • Ha un’alleanza con il cliente.
  • Ha una spiegazione accettabile e adattabile della condizione del cliente.
  • Ha un piano di trattamento e lo gestisce in maniera flessibile.
  • È influente, persuasivo e convincente.
  • Monitora i progressi del paziente.
  • Offre speranza e ottimismo (ottimismo realistico, non un ottimismo incondizionato).
  • È consapevole delle caratteristiche del cliente nel contesto.
  • È riflessivo.
  • Si basa sull’evidenza delle migliori ricerche.
  • Migliora continuamente attraverso lo sviluppo professionale

 

Bibliografia

Beitman, B. e Yue, D. (2004). Learning Psychotherapy: Leader’s Manual. New York: W.W. Norton.

Brownawell, A. e Kelley, K. (2011). Psichotherapy is effective and here’s why. Monitor on Psychology, 42, 9.

Galimberti, U. (1999). Le Garzantine: Psicologia. Torino: Garzanti.

Greenberg L, Watson J: Emotion-Focused Therapy of Depression. Washington, DC, American Psychological Association, 2006

Jervis, G. (1975). Manuale critico di psichiatria. Milano: Feltrinelli.

Wampold, B. (2011). Qualities and actions of effective therapists. Research suggests that certain psychotherapist characteristics are key to successful treatment. www.apa.org/education/ce/effective-therapists.pdf