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numero 42 - novembre 2016

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Lavorare con il bambino ipovedente: una sfida per lo psicologo clinico

Lavorare con il bambino ipovedente: una sfida per lo psicologo clinico

Lavorare e confrontarsi con l’ipovisione sembra ancora oggi un evento considerato raro, nonostante i dati rilasciati dall’OMS la descrivano, purtroppo, come una condizione in aumento nel corso degli ultimi 20 anni. È uso comune quando ci si riferisce alla vista, uno dei sensi principali dell’essere umano, distinguere tra visione e cecità. In realtà questa dicotomia non tiene conto di una terza condizione visiva, che può forse essere considerata di “confine” tra i due concetti, ossia quella di ipovisione. Cercando però di fare da subito chiarezza, possiamo tornare all’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui un soggetto è cieco quando l’acuità visiva corretta nell’occhio migliore è inferiore a 1/20, mentre è ipovedente quando essa è compresa tra 3/10 e 1/20. Approfondire queste tematiche è stato, ed è tutt’ora, fonte di continua ricerca, orientata a cercare di comprendere sempre più questa condizione e sostenere i bambini e le loro famiglie che si trovano a vivere in questa delicata posizione.

È quindi facile comprendere come il lavoro con soggetti con questa minorazione porti a doversi confrontare con una dimensione sia fisica (la percezione del mondo e degli altri) che psicologica, per molti aspetti molto specifica. Naturalmente, per descrivere in questo poco spazio a disposizione il lavoro psicologico con la persona con minorazione della vista occorrerà arrischiarsi in generalizzazioni che certo potranno non rendere conto in maniera capillare di tutta la popolazione affetta da questa menomazione, ma mi auguro di riuscire a ridurre queste forzature al minimo. Cercherò di tralasciare l’indagine sulle differenze che si riscontrano tra le persone con disabilità innata ed acquisita, che amplierebbe, eccessivamente, la trattazione.

Le problematiche visive condizionano il modo in cui la persona acquisisce informazioni dall’ambiente e si relaziona con esso. Del resto già da tempo sappiamo come la vista condizioni gli apprendimenti, arrivando a considerare l’apparato visivo come l’Agenzia Centrale dell’adattamento senso motorio e il “sintetizzatore” delle esperienze (Fraiberg, 1977). Per cercare di descrivere cosa devono affrontare le persone con minorazione della vista, possiamo dire che mentre la cecità porta, o meglio, forse obbliga a fare i conti con una condizione stabile e spesso immodificabile, la persona ipovedente è spesso alle prese con una condizione non stabile e, anche quando lo è, essa genera domande angosciose in lei e, seppure di natura diversa, nelle sue figure di accudimento.

Il sostegno e la cura di soggetti ipovedenti è svolto da Centri Regionali per l’educazione e la riabilitazione visiva, la cui presenza è diffusa su tutto il territorio nazionale. Come è prevedibile, esistono percorsi di intervento sia rivolti alla popolazione adulta che a quella infantile e adolescenziale, che divergono significativamente sulla base dei bisogni specifici dell’età e della situazione contingente. Nella maggior parte delle situazioni gli utenti (o i loro familiari) si rivolgono ai Centri con tre domande: quanto e come vede, e come sta. Questioni estremamente delicate, che lasciano emergere anche le criticità che ancora si devono affrontare per poter arrivare ad offrire una risposta completamente esauriente, come del resto abbiamo già sottolineato. Ogni Centro Regionale, attraverso anche la rete con le strutture territoriali, cerca di rispondere a queste domande. La valutazione proposta è globale, quindi sia medica che psicologica, e sul piano delle competenze sia visuopercettive che legate alle autonomie. Dopo la valutazione ogni operatore propone il proprio progetto riabilitativo, in ragione delle necessità individuate.

Purtroppo, la mancanza di strumenti psicologici standardizzati che permettano allo psicologo di poter valutare con chiarezza il profilo psicologico e cognitivo di un bambino con minorazione della vista è un problema non da poco in quanto gli strumenti standardizzati sono una risorsa molto importante in fase di inquadramento. Questo aspetto, chiaramente, rende il lavoro degli psicologi che operano presso le strutture riabilitative, ma non solo, molto delicato e purtroppo passibile di un grado non trascurabile di incertezza. Dobbiamo quindi considerare, fino ad ora, che come strumenti elettivi per la valutazione e l’assessment di minori con problematiche visive, troviamo in primo luogo l’osservazione diretta del comportamento e una attenta analisi della storia del soggetto, tenendo a mente alcuni aspetti imprescindibili circa quello che già le ricerche hanno evidenziato riguardo allo sviluppo emotivo e relazionale del bambino ipovedente e cieco (Fraiberg, 1977 e 1999; Burlingham, 1972).

È protocollo relativamente condiviso, e adottato come schema per le valutazioni da chi scrive, di impostare la valutazione attraverso un ciclo di incontri con i genitori, incontri di conoscenza ed osservazione con il bambino e con il bambino e i genitori (nel mio caso seguendo il Metodo Tavistock), un confronto in rete con gli altri operatori, e infine la restituzione alla famiglia. Risulta manifesto come quindi sia ancora lunga la strada per garantire degli standard il più possibile condivisi e certi sia alle persone che si rivolgono ai professionisti, che ai professionisti stessi, indipendentemente dalla dedizione spesa e dall’esperienza maturata. 

La psicologia e la psicoanalisi per prima hanno evidenziato come il senso della vista sia fondamentale per uno sviluppo psicologico ed affettivo il più possibile armonico e come la sua totale o parziale assenza rappresentino per la persona interessata direttamente ma anche per le sue figure di accudimento una sfida importante e delicata, oltre che un fattore di rischio. Ricordando Kohut (1982), “[…] nel momento in cui la madre vede il bambino per la prima volta ed entra in contatto con lui, ha inizio la potenzialità di un processo attraverso il quale si stabilisce il Sé di una persona”. Nel caso di un neonato con minorazione della vista possiamo immaginare quindi come il processo sia guidato da strategie alternative e come da subito la qualità della relazione venga potenzialmente resa più problematica. Dobbiamo in effetti considerare come la condizione di ipovisione comprometta la “usuale modalità” di avvio della relazione reciproca madre-bambino, in cui prima l’aggancio e successivamente il rispecchiamento risultano cardini dello sviluppo, spostando l’accento su altri aspetti, come la capacità genitoriale di holding e handling, intendendo con essa la sensazione di essere accuditi, toccati e manipolati dalla madre in modo da poter “sentire” il proprio corpo, sperimentando sensazioni di vario tipo che sappiamo facilitare la consapevolezza di Sé come corpo-persona, ossia quello che Winnicott (1970) chiama “l’insediamento della psiche nel soma”.

Tra i passaggi fondamentali delle prime tappe dello sviluppo affettivo, psicologico e relazionale del bambino dobbiamo poi pensare a come anche l’acquisizione della costanza dell’oggetto (Mahler et al., 1978), cioè la convinzione che un oggetto esiste anche quando è fuori dal campo visivo, in assenza totale o parziale della vista, veda delle differenze che devono essere tenute a mente per poter intervenire in tempo e con il tempo senza patologizzare necessariamente la relazione. Consideriamo infatti, per esempio, che mentre un bambino a sviluppo tipico inizia ad acquisire questa consapevolezza intorno all’ottavo mese di vita, un bambino ipovedente, attraverso l’utilizzo di altri sensi vicari, lo raggiunge in media intorno al diciottesimo mese, a causa di un rallentamento che, come descritto, è da considerarsi fisiologico in queste condizioni.

È opportuno quindi sottolineare l’importanza di un attento accompagnamento anche dei genitori, fin dai primi momenti della nascita del figlio, per un iniziale riconoscimento di queste differenze e dei sentimenti luttuosi collegati al confronto tra la fantasia del bambino immaginato e il bambino reale con le sue problematiche (Lebovici, 1988). Tale fantasia è costituita da pensieri, emozioni, desideri e idealizzazioni legati al bambino che si sta formando durante la gravidanza. Attraverso questa rappresentazione, i genitori iniziano a formare un legame col feto, che comprende aspetti di fantasia e di proiezione misti ad aspetti reali derivanti dall’interazione col feto stesso. L’incontro tra questa rappresentazione e il bambino reale determina una fase di riadattamento che ogni genitore deve affrontare, ma che naturalmente investe di maggiori angosce i genitori di bambini con problematiche.

È un lavoro, come indicato dalla letteratura e da chi scrive sostenuto con convinzione, che riteniamo fondamentale per permettere a genitori spesso frastornati e spaventati di mantenere, strutturare e talvolta ristrutturare le loro competenze affettive come base sicura (Bowlby, 1989) del proprio bambino, per aiutarlo a crescere lungo un percorso il più possibile armonioso, nonostante le problematiche legate a una visione assente, parziale o deformata dell’ambiente intorno a lui.

 

Bibliografia

Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Milano: Raffaello Cortina.

Burlingham, D. (1972). Psychoanalitic studies of sighted and blind. New York: International Universities Press.

Fraiberg, S. (1977). Insights from the blind: comparative studies of blind and sighted infants. New York: Meridian.

Fraiberg, S. (1999). Sostegno allo sviluppo. Milano: Raffaello Cortina.

Lebovici, S. (1988). Il bambino, la madre e lo psicoanalista. Roma: Borla.

Kohut, H. (1982). La ricerca del Sé. Torino: Bollati Boringhieri.

Mahler, M., Pine, F. e Anni Bergman, A. (1978). La nascita psicologica del bambino. Simbiosi e individuazione. Torino: Bollati Boringhieri.

Winnicott, W.D. (1970). Sulle basi di sé nel corpo. Roma: Armando Editore.