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numero 13 - dicembre 2013

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Il bullismo diventa cyber

Il bullismo diventa cyber

Il 17 ottobre 2006, Megane Meir, una tredicenne che viveva a O'Fallon nel Missouri, ricevette un messaggio da un certo Josh Evans, un ragazzo con cui aveva fatto amicizia su un social network:"A O'Fallon tutti sanno chi sei. Sei una persona schifosa e tutti ti odiano. Ti auguro una vita di merda. Senza di te il mondo sarebbe un posto migliore."
Megane rispose: “Sei il tipo di ragazzo per il quale una ragazza potrebbe uccidersi”. Venti minuti dopo aver inviato questo messaggio, i genitori la trovarono impiccata nella sua stanza, suicida. Mancavano tre settimane al suo quattordicesimo compleanno.
Josh per un certo periodo di tempo aveva fatto credere a Megane di essere un sedicenne che la trovava carina e che voleva essere suo amico. Le scriveva cose gentili. Megane, ragazza un po' sovrappeso, insoddisfatta del proprio aspetto fisico, con un disturbo depressivo per il quale assumeva anche farmaci, se ne era innamorata, anche se non lo aveva mai visto neanche in foto.
Poi improvvisamente il tono cambiò: “Sei brutta, grassa, fai schifo…”, fino allo scambio finale del 17 ottobre.
Josh Evans non era mai esistito. Era un account creato da un'amica (chiamiamola così) di Megane e dalla madre di quest’amica. Le due raccontarono poi alla polizia che volevano solo fare uno scherzo.

Il caso di Megane purtroppo non è restato isolato, altri hanno compiuto gesti estremi a seguito di molestie in Rete. Negli USA esiste il neologismo cyberbullicidio (cyberbullicide) per definire i suicidi direttamente o indirettamente causati da questo tipo di attacchi. Questo caso, e i successivi, hanno cambiato le idee sui rischi della Rete. Fino ad allora l'attenzione era focalizzata sui predatori sessuali, improvvisamente il popolo del Web si è accorto dell'agguato di un altro pericolo, più esteso ed insidioso: il cyberbullismo. Fortunatamente i casi di ciberbullicidio sono relativamente pochi, ma il fenomeno delle molestie in rete continua ad aumentare con conseguenze psicologiche rilevanti per le vittime: perdita di autostima, insicurezza, depressione, irritabilità e bisogno di rivalsa, magari verso altre vittime innocenti. Stesse conseguenze insomma del bullismo non cyber.
Nei “Viaggi di Gulliver”, di Jonathan Swift, Gulliver spiega agli Houyhnhnms, cavalli intelligenti e razionali, la tecnologia militare del suo paese per convincerli che anche gli umani sono forniti d'intelligenza. L'houyhnhnm che lo ospitava, inorridito da ciò che aveva ascoltato, replica che a suo avviso gli umani si erano serviti della ragione per rendere più gravi i loro difetti e per inventarne dei nuovi, che la natura non aveva dato loro.
La differenza è tutta qui. Il bullismo tradizionale sta a quello cyber, come una rissa tra due gruppi rivali sta ad una guerra nucleare. La tecnologia, tra i pur tanti meriti, ha anche il difetto di amplificare l'impatto della nostra aggressività. Le normali azioni di bullismo, se perpetrate attraverso tecnologie digitali, diventano ancor più devastanti. Anche azioni che nel quotidiano non digitale sono scherzi innocenti o innocue ragazzate, nel mondo virtuale acquistano una ferocia che sovente va ben oltre le intenzioni che le mette in atto. Spesso i ragazzi si comportano in rete come si comporterebbero in classe. Non realizzano che non è la stessa cosa.

Nella maggior parte degli altri pericoli che i giovanissimi possono incontrare nella Rete (truffe, predatori sessuali, e simili), il rischio è dato da individui senza scrupoli, relativamente pochi, che hanno obbiettivi precisi finalizzati ad un guadagno personale. Il cyberbullismo è un’abitudine capillarmente diffusa tra i pari, dai confini spesso sfumati e soggettivi. Viene messo in atto anche in assenza del bisogno procurarsi un guadagno reale che non sia la mera gratificazione attraverso l'umiliazione dell'altro.

Secondo la definizione data da uno dei massimi esperti in materia, Peter Smith, psicologo e docente presso l'Università di Londra, il cyberbullismo è una forma di prevaricazione volontaria e ripetuta, attuata attraverso e-mail, messaggistica istantanea, chat, siti web o di giochi online, o attraverso messaggi o immagini inviati con i cellulari, agita contro un singolo o un gruppo con l’obiettivo di ferire e mettere a disagio la vittima.

Definizione esaustiva, forse anche troppo, e al tempo stesso limitativa. È difficile stabilire la differenza tra un’azione di cyberbullismo ed un normale scherzo tra pari o un’accettabile reazione incollerita in cui si esce dalle righe nei toni e nei termini. Ma una delle insidie del cyberbullismo è proprio questa. Un insulto, una parola di troppo, un motteggio magari un po’ pesante, nel quotidiano restano circoscritti nel tempo e nello spazio, ed anche nel pubblico che assiste. In Rete invece sono esposti in una bacheca accessibile per anni, forse per decenni, tutto il giorno tutti i giorni. Il destinatario non ha via di fuga. Non occorre che la provocazione sia ripetuta, spesso un solo attacco è sufficiente, perché resta là per sempre, non occorre ripetere ciò che permane. A volte non occorre neanche che l'agito sia volontario, almeno non occorre che chi lo attua abbia l'intenzione di fare del male.

Lavoro in una Azienda sanitaria, in un Servizio che si occupa di infanzia e adolescenza. Negli ultimi anni vengono segnalati sempre più frequentemente episodi di cyberbullismo dove il cyberbullo di turno si stupisce della reazione della vittima. Ritiene di non aver fatto nulla di male: “era solo uno scherzo”. Negli interventi che mi capita di fare nelle classi sull'uso consapevole di Internet, è quasi impossibile fare accettare ai ragazzi l'idea, per esempio, che non si devono mettere in rete immagini di altre persone senza il loro consenso, specie se queste possono ridicolizzare o imbarazzare. Sembra una cosa normale che tutti fanno: “se no Youtube a cosa serve?” Spesso qualcuno fa notare come anche a lui o a lei hanno fatto qualche scherzo in Rete, e che lui non se la è presa.
Diversi studi dimostrano che se è alto il numero delle vittime del cyberbullismo, sono anche molti quelli che ammettono candidamente di avere messo in atto azioni definibili come cyberbullismo, magari senza sapere che si trattava proprio di quello.
Questa è un'altra delle insidie del bullismo cyber. Non occorre essere devianti per agirlo, non occorre essere prepotenti, provenire da ambienti disagiati o con poco controllo parentale, non serve essere emarginati, frustrati o altro. Lo fanno tutti perché così fan tutti, anche i “bravi ragazzi” che mai si sognerebbero di compiere azioni di vero bullismo nel non virtuale.

È vero quello che sostengono i ragazzi, gli scherzi non possono essere banditi, occorre saperli accettare. Ma nella vita reale qualsiasi cosa facciamo ad un altro, c'è un feedback, una retroazione immediata. Possiamo osservare le reazioni e regolarci. Nel caso di semplici scherzi possiamo capire quando cominciamo ad esagerare e fermare l'azione prima che da scherzo si trasformi in bullismo. Anche nelle azioni intenzionalmente finalizzate a ferire, la reazione della vittima ci fa capire quando questa ha, per così dire, sofferto abbastanza, e quindi possiamo concludere l'azione per obbiettivo raggiunto. Questo feedback manca quasi sempre e quasi completamente quando l'azione è digitale. Che si tratti di scherzo o che sia una persecuzione intenzionale, raramente siamo in grado di vedere il livello di sofferenza dell'altro, quindi si va avanti senza meccanismi di autoregolazione.

È vero d'altra parte che classificando come cyberbullismo qualsiasi scherzo in Rete o tutti gli atteggiamenti sopra le righe, si rischia di svuotare il termine della sua gravità. Forse non hanno del tutto torto i ragazzi di cui parlavo prima, quando dicono che in fondo sono cose che devono essere accettate. Forse ci stanno invitando a differenziare il cyberbullismo vero e proprio dalle sue forme attenuate, con le quali bisognerà imparare a convivere. Il cyberbullismo esisterà sempre insieme agli altri aspetti del lato oscuro della Rete e insieme al bullismo tradizionale. Nella prevenzione, almeno nelle “guide rapide” che si trovano in Rete, viene già spiegato come difendersi: denunciare il persecutore, dirlo agli adulti, ecc. Sembrano essere presi poco in considerazione invece, interventi finalizzati a rafforzare l’Io della persona, e renderlo più capace di tollerare l’offesa.

Tra le tante ricerche che valutano le conseguenze psicologiche del cyberbullismo, ce n’è una di due ricercatrici dell'Università di Brno apparsa sul Journal of Psychosocial Research on Cyberspace nel 2011. Le autrici concludono che, almeno nei casi di ragazzi senza particolari fragilità, aver subito azioni di cyberbullismo ha spesso aiutato le vittime a sviluppare delle strategie difensive (coping) per neutralizzare o gestire stress e disagio. Questi ragazzi inoltre si erano creati un modello cognitivo del bullo, che li aiutava a riconoscere le persone aggressive e relazionarsi ad esse.

Certo non tutti i cyberbulli lo sono a loro insaputa. Accanto alle ragazzate amplificate dalla tecnologia ci sono azioni che sarebbero prepotenza e prevaricazione intenzionale anche senza di essa. Anche in questo caso la tecnologia è una fionda che trasforma i sassi in pallottole, con la sola eccezione di quei “sassi” costituiti da aggressione o coercizione fisica che la tecnologia non può trasmettere. Per ora.

Purtroppo le ricerche non sempre differenziano la gravità delle azioni di bullismo in Rete. L'impressione che ho dal mio piccolo osservatorio personale è che forse la maggior parte degli attacchi sono di natura non grave, scherzi appunto, o immagini o informazioni la cui divulgazione viene ritenuta legittima, tant’è che spesso non viene neanche coperta dall'anonimato. Certo si tratta di un fenomeno deprecabile che può avere conseguenze pesanti specie su persone già deboli, ma con il quale temo bisognerà attrezzarsi per convivere.