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numero 42 - novembre 2016

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Rassegna stampa

Rassegna stampa #42

Rassegna stampa #42

È possibile prevenire il burnout

Nella letteratura scientifica nazionale e internazionale molti lavori hanno ormai chiaramente attestato come il coinvolgimento lavorativo e sintomi del burnout siano associati alla performance lavorativa, all’impegno profuso all’interno dell’organizzazione e alla salute psicofisica delle persone. In accordo con il modello richieste-risorse, differenti processi motivazionali entrano in gioco nell’impegno lavorativo e nel presentarsi di sintomi legati al burnout. Tra le tante conseguenze connesse al burnout, le più pervasive riguardano la soddisfazione della vita delle persone, non solo in ambito lavorativo, e la comparsa di sintomi legati alla depressione. Per questo motivo, la ricerca qui presentata aveva l’obiettivo di investigare la relazione tra l’impegno lavorativo e il burnout e le associazioni con le conseguenze di quest’ultimo, quali, appunto, la soddisfazione verso la propria vita e il manifestarsi di sintomi depressivi. Questo studio ha coinvolto un ampio numero di persone impiegate all’interno di strutture sanitarie pubbliche, identificate come una delle principali organizzazioni lavorative all’interno delle quali le persone sviluppano burnout. I risultati hanno confermato l’esistenza di una relazione inversamente proporzionale tra l’impegno lavorativo e sintomi depressivi: ovvero, al crescere dell’impegno lavorativo diminuiscono i problemi legati all’insorgere della depressione. Allo stesso modo, al crescere dell’impegno lavorativo aumenta la percezione circa la soddisfazione della propria vita, non solo lavorativa, confermando come questo aspetto non limiti le sue conseguenze alla sola sfera professionale delle persone. Inoltre, è emersa una relazione tra il burnout e i sintomi depressivi, a conferma della maggior probabilità delle persone in burnout di sviluppare dei problemi legati alla depressione. Ovviamente, i sintomi depressivi sono risultati negativamente correlati alla soddisfazione verso la propria vita, ad ulteriore conferma della pervasività di tali vissuti. I risultati più interessanti riguardano la relazione tra lo stile di leadership e l’impegno lavorativo che, come detto in precedenza, influenza la possibilità di sviluppare burnout e sintomi depressivi; in particolare, un superiore che attua uno stile di leadership basato sull’aiuto verso le altre persone al fine che rendano al massimo è in grado di prevenire tali problematiche. Infine, è emerso come anche il carico di lavoro influenzi il burnout: in particolare è più probabile che sviluppino burnout le persone con un elevato carico lavorativo. In sintesi, questo studio evidenzia come sia possibile tutelare la salute delle persone in un contesto lavorativo, attuando mirate politiche di leadership e stabilendo degli adeguati carichi di lavoro. Queste caratteristiche, non solo influenzeranno positivamente la vita delle persone, ma anche la loro performance lavorativa: da qui, quindi, la reale necessità di mettersi in gioco da parte delle organizzazioni, anche per fini prettamente economici.

Upadyaya, K., Vartiainen, M. & Salmela-Aro, K. (2016). From job demands and resources to work engagement, burnout, life satisfaction, depressive symptoms, and occupational health. Burnout Research, 3, 101-108

 

La comunicazione tra pari nei bambini con disturbo dello spettro autistico

I disturbi dello spettro autistico sono stati ampiamente indagati nel panorama scientifico, anche se ci sono ancora molti aspetti controversi circa la natura di tali problematiche. Tra le conseguenze principali legate a questo tipo di disturbi, si hanno le difficoltà nell’interazione sociale che causano problemi nello sviluppare legami di amicizia, e aumentano lo stress percepito da queste persone all’interno di contesti sociali. Per questo motivo, è emerso come i bambini affetti da questa tipologia di disturbo comunichino meglio con gli adulti piuttosto che con i propri pari. Nonostante ciò, non sono molti gli strumenti che permettono di valutare questo aspetto: infatti, la maggior parte degli stessi si concentra sulle interazioni tra bambino e adulto senza indagare lo stesso aspetto all’interno del gruppo dei pari del bambino. Per questo motivo, quindi, due ricercatori statunitensi hanno utilizzato il test ADOS, del quale è disponibile in Italia la versione aggiornata (ADOS-2), per predire le comunicazioni reciproche nei bambini affetti da disturbo dello spettro autistico durante i giochi con i pari, applicando il paradigma dell’interazione tra par (PIP). Per fare ciò, ai 30 partecipanti che formavano il campione di questo studio è stato prima somministrato il test per poi partecipare al protocollo PIP in modo tale da poterne analizzare il comportamento. I risultati hanno evidenziato che la comunicazione sociale era il predittore principale della comunicazione reciproca durante i giochi tra pari dei bambini che non veniva predetta dalle misure del Quoziente Intellettivo Verbale e dai Comportamenti Ripetitivi. In base a ciò, quindi, è emerso come l’ADOS, ed in particolare la sua versione aggiornata, sia in grado di predire le interazioni tra pari dei bambini con disturbo dello spettro autistico; in particolare, è necessario che il professionista utilizzi in maniera consapevole lo strumento conoscendone i relativi punti di forza e le potenzialità che a volte non sempre vengono sfruttate al meglio. Per questo motivo, in sintesi, gli autori sostengono come questo strumento possa essere efficacemente utilizzato per diverse funzionalità nel trattamento dei bambini affetti da disturbo dello spettro autistico, anche per avere delle misurazioni accurate del livello di compromissione delle comunicazioni sociali tra pari, e non solo con gli adulti.

Qualls, L. R. & Corbett, B. A. (2017). Examining the relationship between social communication on the ADOS and real-world reciprocal social communication in children with ASD. Research in Autism Spectrum Disorders, 33, 1-9

 

La relazione tra l’uso di alcol e i comportamenti violenti

Una vasta mole di studi ha attestato la presenza di una forte relazione tra il consumo di alcol e la violenza interpersonale; in particolare, è emerso come l’uso di alcol durante l’adolescenza aumenti il rischio di condotte violente negli adolescenti stessi e nei giovani adulti. Un comportamento in costante aumento negli ultimi anni è quello denominato binge drinking: l’assunzione di più bevande alcoliche in uno strettissimo lasso di tempo con il solo scopo di ubriacarsi nel più breve tempo possibile. Nonostante la grande mole di articoli al riguardo, solo pochi lavori si sono concentrati su questa relazione da un punto di vista longitudinale, esaminandone l’evoluzione nel tempo; ad esempio, non si hanno molti lavori che differenziano le relazioni tra le condotte violente e l’uso di alcol in base all’età delle persone. Partendo da questa lacuna, un gruppo di ricercatori statunitense ha condotto uno studio su un ampio campione di ragazzi di età compresa tra i 12 e i 25 anni in modo tale da poter valutare l’associazione tra il consumo di alcol e le condotte violente in diverse fasce di età e per un lasso di tempo sufficientemente lungo da poter descrivere un andamento degli stessi pattern evidenziati. I risultati hanno mostrato come la sola associazione statisticamente significativa, dopo aver rimosso l’influenza dei fattori socio-anagrafici, riguardasse i bambini di 13 anni di età. Dei risultati diversi sono emersi in merito al comportamento di binge drinking: in questo caso l’associazione con i comportamenti violenti riguarda sia i bambini di 13 anni che i ragazzi di 20 anni; in particolare, sembra che la pericolosità sociale di tale condotta e la conseguenza di atti violenti sia maggiore durante l’adolescenza. Ad ulteriore conferma della pericolosità sociale di questo tipo di condotte si ha la legislazione americana, dove è stato condotto lo studio: infatti, negli USA il consumo di bevande alcoliche è vietato sino ai 21 anni; questa legislazione molto più proibizionista rispetto a quella in vigore in Italia, però, non sembra essere in grado di risolvere il problema. Concludendo, quindi, da questo studio emerge da un lato la non efficacia di leggi particolarmente restrittive circa il consumo di alcol, dall’altro come i comportamenti violenti non siano in realtà legati al solo consumo di alcol, con l’eccezione di bambini molto piccoli, quanto piuttosto alla modalità e alla finalità con la quale questa sostanza viene consumata.

Salas-Wright, C. P., Reingle Gonzalez, J. M., Vaughn, M. G., Schwartz, S. J. & Jetelina, K. K. (2016). Age-related changes in the relationship between alcohol use and violence form early adolescence to young adulthood. Addictive Behaviors Reports, 4, 13-17

 

Visualizzatori vs verbalizzatori

I diversi stili cognitivi delle persone e le relative preferenze per lo stile di apprendimento sono stati dei tempi particolarmente trattati negli ultimi anni all’interno della ricerca scientifica sia in ambito psicologico sia educativo. In merito allo stile cognitivo visivo-verbale e la sua influenza sull’apprendimento di figure e di testi sono stati invece condotti relativamente pochi studi: ad esempio, pochi lavori si sono concentrati sull’esame delle differenze tra visualizzatori e verbalizzatori nell’apprendimento; in particolare, per visualizzatori si intendono quelle persone inclini a rappresentarsi le situazioni tramite figure e a rielaborarle nell’immaginazione; mentre i verbalizzatori sono persone propense a basarsi su elementi linguistici nello svolgere i compiti cognitivi. Per questo motivo un team tedesco di quattro ricercatori ha svolto uno studio al fine di esaminare le differenze tra visualizzatori e verbalizzatori nell’apprendimento di materiale prettamente visivo, come delle immagini, e di materiale prettamente verbale, come dei testi. Utilizzando una batteria di questionari, gli studenti universitari che hanno preso parte allo studio sono stati divisi in verbalizzatori e in visualizzatori, sulla base dello stile cognitivo prevalentemente utilizzato, quale appunto quello verbale o quello visivo. Al fine di meglio comprendere il processo di apprendimento sono state utilizzate delle tecnologie che permettevano il monitoraggio oculare delle persone. I risultati hanno mostrato come i visualizzatori passino molto più tempo dei verbalizzatori ad analizzare le figure e le immagini, mentre i verbalizzatori si concentrino molto di più sui testi. Inoltre, i risultati hanno evidenziato come entrambe le strategie di apprendimento possano essere funzionali, ma i risultati migliori si ottengono quando il materiale utilizzato rispecchia maggiormente lo stile cognitivo della persona. Un aspetto molto importante riguarda l’analisi qualitativa del materiale non verbale: infatti, è emerso come i verbalizzatori passino molto tempo ad analizzare dettagli non importanti delle immagini che vengono presentate, mentre i visualizzatori non analizzino tali parti non rilevanti. Infine, per quanto riguarda la performance un risultato particolarmente rilevante riguarda la comprensione di un testo: nonostante il testo sia un materiale prettamente verbale, è emerso come i visualizzatori abbiano ottenuto delle prestazioni migliori dei verbalizzatori. In conclusione, quindi, è importante valutare lo stile cognitivo degli studenti al fine di disporre di materiale che sia più congeniale favorendo l’apprendimento degli stessi.

Koc-Januchta, M., Hoffler, T., Thoma, G., Prechtl, H. & Leutner, D. (2017). Visualizers versus verbalizers: Effects of cognitive style on learning with texts and pictures – An eye-tracking study. Computers in Human Behavior, 68, 170-179