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numero 40 - settembre 2016

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Rassegna stampa

Rassegna stampa #40

Rassegna stampa #40

La prevenzione del doping negli adolescenti: quando la teoria da sola non basta

Il problema del doping nello sport è in forte crescita, come testimoniato ad esempio nelle ultime Olimpiadi di Rio 2016 dove è stata esclusa un'intera federazione nazionale in quanto fautrice di una metodologia scientifica di doping di stato. Il problema del doping, però, non riguarda soltanto gli atleti professionisti ma anche i ragazzi che si affacciano ad alcune discipline sportive. Date le forte ripercussioni che questo tipo di comportamento può avere sui ragazzi, diventa cruciale cercare di prevenire il fenomeno. A tal proposito, un gruppo di studiosi norvegesi ha messo a punto un programma di prevenzione al doping, chiamato programma Ercole, appositamente sviluppato per adolescenti. Tale programma è molto diverso da quelli classicamente utilizzati: infatti, alle lezioni teoriche vengono affiancati dei momenti maggiormente esperenziali. Al fine di valutare l’efficacia di tale programma, gli studiosi hanno casualmente assegnato i 202 studenti delle scuole secondarie ai tre gruppi: gruppo di controllo, gruppo che frequentava solo lezioni teoriche sulla prevenzione al doping, e gruppo che partecipava al progetto Ercole. I risultati hanno mostrato delle differenze statisticamente significative tra i tre gruppi per quanto riguarda i comportamenti alimentari, la soddisfazione corporea e l’autoefficacia sulla propria forza; in particolare, il gruppo che ha seguito il progetto Ercole ha ottenuto i punteggi più elevati mentre, in maniera sorprendente, il gruppo di controllo ha avuto delle performance migliori del gruppo di ragazzi che ha partecipato alle sole lezioni teoriche. Questo risultato, quindi, diventa centrale nella valutazione non solo del programma Ercole ma anche dei classici interventi che vengono compiuti per la prevenzione al doping: in particolare, è emerso come sia preferibile non fare alcun tipo di intervento piuttosto che un classico programma formativo incentrato solo sulla trasmissione di contenuti teorici che, non solo non porta miglioramenti, ma sembra produrre effetti opposti a quelli desiderati.

Sagoe, D., Holden, G., Rise, E. N. K., Torgersen, T., Paulsen, G., Krosshaug, T., Lauritzen, F. & Pallesen, S. (2016). Doping prevention through anti-doping education and practical strength training: the Hercules program. Performance Enhancement & Health, 5, 24-30.

 

L’intelligenza emotiva nelle classi scolastiche

Lo studio delle emozioni nelle classi scolastiche è fondamentale per comprendere le motivazioni e le strategie di apprendimento degli studenti. L’esperienza emotiva è una componente centrale delle attività scolastiche e gioca un ruolo chiave non solo in relazione all’apprendimento ma anche rispetto alla performance accademica nel lungo periodo. Ad esempio, nel contesto sscolastico sono emerse delle correlazioni tra l’intelligenza emotiva e la performance; nonostante ciò, in letteratura si hanno pochi studi che hanno indagato il costrutto di intelligenza emotiva all’interno di classi non universitarie. Per questo motivo, un gruppo di ricercatori spagnoli ha condotto uno studio su oltre 700 studenti di età compresa tra 13 e 19 anni divisi in quasi 60 classi diverse. Una variabile molto importante nello studio dell’intelligenza emotiva nelle classi scolastiche è data dalla performance scolastica media della classe stessa: l’ipotesi dello studio, che è stata poi confermata dai risultati empirici, prevedeva maggiori livelli di intelligenza emotiva negli studenti facenti parte di classi dove in media gli studenti ottengono buone performance. Inoltre, questo lavoro aveva l’obiettivo di sviluppare uno strumento per la misurazione dell’intelligenza emotiva negli studenti delle scuole secondarie: infatti, in letteratura è emerso come non ci sia uno strumento valido e attendibile per la misurazione di questo importante costrutto in contsto scolastico. I risultati, hanno mostrato delle buone proprietà psicometriche: per questo motivo, quindi, gli autori ritengono che questo nuovo strumento per la misurazione dell’intelligenza emotiva sia adeguato a tutte le classi scolastiche in modo tale da poter valutare questo costrutto all’interno del gruppo classe. Sulla base di ciò, emerge la necessità per i professionisti che operano all’interno dell’area della psicologia scolastica di non sottovalutare l’impatto che l’intelligenza emotiva del gruppo classe ha sia sulla performance a scuola sia sul rendimento a lungo termine, oltre che sul benessere degli studenti stessi.

Aritzeta, A., Balluerka, N., Gorostiaga, A., Alonso-Arbiol, I., Haranburu, M. & Gartzia, L. (2016). Classroom emotional intelligence and its relationship with school performance. European Journal of Education and Psychology, 9, 1-8.

 

L’attività fisica dopo il parto

È ampiamente conosciuto come l’attività fisica giochi un ruolo centrale nel mantenimento del benessere delle donne subito dopo il parto. Ad oggi, viene consigliata alle donne in gravidanza e dopo il parto una moderata attività fisica, che va dai 150 ai 300 minuti a settimana. Nonostante ciò, la maggior parte delle donne dopo il parto non segue queste linee guida: è stato stimato che circa due donne su tre non fanno alcuna attività fisica dopo la nascita del bambino. Tale attività fisica fornisce numerosi benefici alle donne che hanno da poco partorito, come il mantenimento del peso, la riduzione di rischi connessi al diabete e a problemi cardiovascolari, la riduzione del rischio di sviluppare una depressione post-partum. In particolare, gli effetti dell’attività fisica su quest’ultima variabile non sono ancora del tutto noti e solo pochi lavori si sono concentrati su tale relazione; per questo motivo, un gruppo australiano di ricercatori ha messo a punto uno studio, su un campione di oltre 300 giovani madri, per valutare l’associazione tra depressione post-partum, attività fisica e tempo passato dalle madri davanti alla televisione. I risultati hanno mostrato una relaziona negativa e statisticamente significativa tra depressione post-partum e attività fisica; nonostante ciò, controllando l’influenza di alcune variabili anagrafiche, tale associazione perde di forza e di significatività statistica. In particolare, le variabili anagrafiche capaci di modificare questa relazione sono l’alimentazione seguita dalla madre, il livello educativo, l’età, lo stato civile, l’indice di massa corporeo e le ore di sonno del bambino, che è risultata la variabile con l’associazione più forte. Questo studio mostra dunque come l’attività fisica della giovani madre non diminuisca la possibilità di sviluppare una depressione post-partum. Inoltre, i risultati hanno anche evidenziato come non ci sia nessuna associazione tra la depressione post-partum e il numero di ore passate davanti alla televisione. Nonostante ciò, gli autori concludono evidenziando come sia preferibile fare un po’ di attività fisica, invece che passare tutto il giorno davanti alla televisione!

Teychenne, M., Abbott, G., van der Pligt, P., Ball, K., Campbell, K. J., Milte, C. M. & Hesketh, K. D. (2016). Associations between physical activity, television viewing and postnatal depressive symptoms amongst healthy primiparous mothers. Mental Health and Physical Activity, 10, 62-67.

 

L’identità sociale criminale in carcere: è la causa della recidività?

L’identità sociale si riferisce al senso internalizzato delle persone circa la loro appartenenza ad un gruppo, e numerosi studi hanno evidenziato che quando l’identità sociale è saliente, funge da forte leva motivazionale per i comportamenti delle persone; tant’è che un ampio numero di ricerche ha mostrato come l’identità sociale sia la base del giudizio sociale, dell’influenza sociale e della cooperazione: quindi, le persone tendono a vedere il mondo dalla prospettiva propria del gruppo cui appartengono. Questo è vero anche all’interno di gruppi atti a compiere azioni criminali: da qui, infatti, nasce la teoria della Criminal Social Identity (CSI); se per un individuo la CSI è saliente, aumenta la probabilità di compiere azioni criminali. Nonostante la centralità di questo costrutto, si hanno pochi studi che hanno indagato i fattori responsabili della CSI e del mantenimento di un orientamento criminale. Tre ricercatori inglesi, quindi, hanno messo a punto una ricerca su oltre 100 persone, di età compresa tra 12 e 21 anni, detenute all’interno di un carcere. I risultati hanno evidenziato una correlazione positiva tra CSI e l’avere degli amici criminali, mentre non si hanno relazioni tra CSI e diagnosi psicopatologiche. Dal momento che la probabilità che un criminale, una volta uscito dalla prigione, continui a delinquere è molto alta, un obiettivo di questa ricerca era quello di stabilire se ci fosse una relazione tra CSI e tempo trascorso in carcere: infatti, all’interno delle strutture detentive è molto probabile che le persone sviluppino maggiori livelli di CSI. I risultati, in questo caso sono del tutto sorprendenti: infatti, nonostante sia stata evidenziata una relazione tra CSI e tempo trascorso in carcere, questa relazione da sola non è in grado di spiegare l’influenza del carcere nello sviluppo della CSI; in altre parole, lo stare a contatto con altre persone all’interno di una struttura detentiva, non necessariamente aumenta l’identità sociale criminale: per questo motivo, quindi, tale relazione non sembra essere la causa della recidività dei comportamenti criminali. In sintesi, quindi, questo lavoro evidenzia come sia possibile pensare e progettare delle strutture detentive finalizzate al reale recupero della persona senza che la stessa torni a delinquere una volta tornata in libertà.

Bodudzek, D., Dhingra, K. & Debowska, A. (2016). The moderating role of psychopathic traits in the relationship between period of confinement and criminal social identity in a sample of juvenile prisoners. Journal of Criminal Justice, 44, 30-35.