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numero 22 - novembre 2014

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L'intervista

Intervista a Nicola Piccinini

Intervista a Nicola Piccinini

Come è essere psicologi in Italia oggi? Lo abbiamo chiesto a qualcuno che di psicologi se ne intende, non soltanto perchè è uno psicologo o perchè si occupa di psicologia sociale, ma perchè da anni è a contatto con tanti colleghi, offrendo spunti formativi e di riflessione, informazioni e supporto nell'avvio della professione e nella tutela del ruolo professionale. Il Dott. Piccinini, attuale Presidente dell'Ordine degli Psicologi del Lazio, si trova addesso nella posizione di poter portare la sua esperienza diretta sul territorio all'interno di un contesto istituzionale, provando a fare la differenza. 
A lui abbiamo chiesto un punto di vista personale sulla professione dello psicologo che necessariamente rispecchi da un lato le informazioni provenienti dall'osservatorio privilegiato dell'Ordine degli Psicologi, ma che dall'altro tragga spunto dalle esperienze di tanti professionisti con cui è venuto a contatto.   

D. “Aiuto gli psicologi nell’avvio, promozione e sviluppo della loro attività libero professionale o associativa”. Con questa frase si apre la sua pagina web. Lei quindi aiuta i professionisti dell’aiuto. Da cosa è nata questa idea?

R. Sono uno psicologo sociale, da sempre appassionato di internet e di marketing, e che da diversi anni si occupa di politiche della professione di Psicologo fuori e dentro le principali Istituzioni di categoria. Dalla contaminazione ed impollinazione di questi ambiti ed esperienze, solo apparentemente distanti, ho costruito una nicchia di competenza effettivamente distintiva rispetto allo “psicologo che solitamente ti aspetti”. 
Ad oggi in Italia abbiamo circa 90.000 psicologi iscritti all'Albo, i quali mediamente effettuano due investimenti formativi all'anno. Sono quindi molto formati sulla tecnica psicologica ma molto meno preparati ad agire efficacemente, da professionisti, all'interno di un mercato altamente competitivo e di una domanda in continuo mutamento e sempre più contratta. Situazione per altro comune a molte altre famiglie professionali.
Diciamo che aiuto il professionista nell'acquisizione e valorizzazione di tutte quelle competenze abilitanti che non sono tipiche della professione, ma indubbiamente facilitano e sostengono l'avvio, lo sviluppo e la promozione dell'attività professionale. In altre parole, aiuto a monetizzare l'investimento formativo del professionista.
I clienti ci pagano fondamentalmente per due ragioni: o perché si risolva loro un problema, o perché si generi per loro un vantaggio. In tutti e due i casi, il desiderio deve essere sufficientemente sentito da predisporre i clienti a pagarci.
Il mio aiuto si concretizza, in particolare, nel definire la specifica nicchia di utenza che il professionista intende servire (in avvio e/o sviluppo), la specifica offerta di valore/servizio ed i tratti distintivi che la rendono unica e desiderabile, i canali e le strategie per agganciare, ascoltare e conversare con quell'utenza al fine di aumentare reputazione del professionista, le strategie e tecniche per sviluppare la rete inviante e divenirne top of mind su quell'ambito di competenza ed intervento. Fatto ciò, aiuto nella stesura dell'action plan e nella sua messa in opera, ovvero nella pianificazione di tutti i passi operativi che permettono di dare corpo al business model definito e valutato come sostenibile e desiderabile dal professionista.

D. Se dovesse scattare una foto degli psicologi italiani, cosa si vedrebbe in questa foto dalla sua prospettiva?

R. Gli psicologi nascono nel 1989, con la Legge 56, e si posizionano prevalentemente in contesti welfare: scuola, pubblica amministrazione, sanità. Un ruolo piuttosto definito all'interno di una società solida. A distanza di 25 anni ed in epoca di spending review, il welfare viene pian piano dismesso e con esso gli psicologi che vi operano. Le domande di mercato divengono liquide, cangianti. Le Università, gli Ordini e le Scuole di Specializzazione, a parte eccezioni, governano e formano secondo parametri di realtà che spesso non sono più reali. Abbiamo una comunità professionale fatta da libero professionisti, disorientata rispetto al da farsi, che di frequente investe risorse economiche e di tempo su percorsi professionalizzanti ad offerta satura e/o in dismissione, non equipaggiata a cogliere e giocare le sfide poste da questa società liquida e mutevole.
La società civile e le istituzioni ci vedono tendenzialmente come professionisti che intervengono solo a valle, quando si palesa il disturbo, anche a causa di persistenti false credenze e mal posizionamenti sulla figura e l'offerta di valore dello Psicologo. Più difficilmente vivono lo psicologo, a monte, come un quotidiano agente di facilitazione, di sviluppo e crescita, di benessere e buona convivenza, di problem solving.
Mi perdoni la semplificazione, forse eccessiva, riassumerei dicendo che la domanda di Psicologia esiste, il problema è che la committenza spesso non vede lo Psicologo come la figura di riferimento per trovare risposte. In tutto ciò, ovviamente anche le nostre Istituzioni di categoria dovrebbero fare una onesta e lucida riflessione... con locus of control ovviamente interno.

D. È innegabile che tra gli psicologi aleggi la “sindrome del non formato”; è come se i giovani psicologi avessero la costante percezione di non essere mai abbastanza preparati per investire nella professione. Da cosa nasce questa paura secondo lei.

R. In generale il sistema universitario italiano è sempre più in affanno nel formare professionisti pronti a confrontarsi con questo mercato del lavoro. La dinamica perversa della "formazione parcheggio" è comune a diverse professioni. Nello specifico, credo che lo psicologo neo-laureato possa soffrire della mancanza di un progetto di sviluppo professionale. Si trova di fronte uno scenario di start-up professionale differente da quello conosciuto durante l'Università (e spesso durante le specializzazioni), può sentirsi inadeguato, non aver chiaro il suo valore, si pone in maniera a-simmetrica di fronte ad altre professioni. È stato formato a ragionare e viversi in termini di ruoli e contesti stereotipati (e sempre meno presenti nella realtà dei fatti), più che in termini di profilo di competenze. Questo disallineamento genera insicurezza, non da sufficiente dignità all'essere e sentirsi Psicologo. La professione rimane sempre qualcosa che ha da venire.
In tutto ciò, indubbiamente, esiste anche una certa induzione più o meno inconsapevole. Quante decine di corsi di laurea in Psicologia abbiamo in Italia e con quali standard di professionalizzazione? Quante centinaia di Scuole di Specializzazione in Psicoterapia? L'Ordine Psicologi, sia a livello nazionale che nelle sue sedi territoriali, cerca di individuare gli scenari di possibile sviluppo ed opportunità professionale, così da favorire percorsi formativi differenziati e maggiormente aderenti ai reali sbocchi lavorativi? O invece si tende ‒ anche per retaggio storico ‒ a favorire in modo inerte un continuum formativo, perenne, in ambiti clinici e terapeutici? Quante ore formative sono dedicate a passare competenze abilitanti non psy, utili a muoversi più efficacemente all'interno di un mercato sempre più liquido e competitivo?
La paura nasce e viene alimentata da uno stallo di sistema. A chi conviene? Certamente non agli iscritti, soprattutto a quel 50% di iscritti sotto i 40 anni che segnano redditi medi annui tra i più bassi rispetto alle altre professioni con Ordine. Chi può scardinare questo stallo? Credo che i tre attori principali - Unversità, Ordini e ENPAP - debbano in tal senso assumersi le loro responsabilità.

D. C’è probabilmente un altro aspetto correlato alla domanda precedente: il bisogno degli psicologi di diventare qualcos’altro. Mi spiego meglio: sembra, ad esempio, che tra gli psicologi clinici ci sia la tendenza a percepirsi manchevoli se non si è psicoterapeuti; gli psicologi del lavoro invece sentono il bisogno di diventare un po’ economisti e intraprendono percorsi di amministrazione del personale o di diritto del lavoro. Ma secondo lei è possibile investire su di sé come psicologi senza necessariamente diventare qualcos’altro?

R. Lo Psicologo è un consulente di processo, al di là della funzione più squisitamente clinica, è normale che si interfacci con professioni, istituzioni, organizzazioni e contesti differenti. Ed è normale ‒ anzi auspicabile ‒ che acquisisca conoscenze e competenze non tipicamente proprie. Daniel Kahneman è uno psicologo israeliano che, nel 2002, ha vinto il Premio Nobel per l'economia. In diverse Facoltà di Economia vi sono esami di Psicologia Sociale, piuttosto che di Finanza Comportamentale. Ed è giusto. Ciò che non è giusto è che nelle Facoltà di Psicologia non vi sia neppure un'ora di Economia, di Gestione d'Impresa, di Imprenditoria Sociale, di Marketing, ecc... e così per tante altre preziose impollinazioni possibili. 
Parimenti, vi è pure un processo di svuotamento della figura di Psicologo. Perdonatemi se stresso eccessivamente il concetto, ma ad oggi il neolaureato in Psicologia difficilmente si sente un professionista fatto e pronto a lavorare come Psicologo, alle volte neppure sa cosa realmente può fare lo Psicologo. E così che fa? O si iscrive ad altri anni di specializzazione (senza ovviamente calcolare il R.O.I.Return on Investment ‒ di tale scelta), o si iscrive ad uno di quei corsi dedicati a counselor, coach, reflector, psicopedagogisti clinici, ecc... che ultimamente abbondano, ovviamente gestiti ed alimentati anche da Psicologi. C'è qualcosa che non va, non vi pare?

D. Parliamo di test; strumenti di misura che in qualche modo contraddistinguono la professione dello psicologo. Qual è secondo lei l’atteggiamento degli psicologi nei confronti dei test?

R. I test, da sempre, rappresentano l'artefatto tangibile dello Psicologo, uno strumento di misura certo che contraddistingue la nostra professione. La famosa Sentenza Platé ha fatto storia in tal senso. 

D. Parliamo ora di una questione spinosa nata nella notte dei tempi: i corsi di counselling (che spesso vengono tenuti nelle stesse scuole di psicoterapia). Gli psicologi temono i cousellor. Hanno ragione?

R. Su questo argomento bisognerebbe fare un'intervista dedicata, dentro questa intervista. La legge 4/2013 riconosce le associazioni professionali di counselor. Esistono e dobbiamo confrontarci con tale situazione, generata per altro da precisi soggetti interni alla nostra comunità professionale. Personalmente reputo che ‒ rispetto alla normativa italiana, differente da quella di altri paesi dove i counselor esistono ‒ lo psicologo dovrebbe essere il massimo esperto di counseling psicologico, dal mio punto di vista il counseling è psicologico, e lo dovrebbe fare SOLO lo psicologo. Invece, con responsabilità interne alla categoria, si è trasformata una tecnica propria dello psicologo ‒ almeno rispetto alla 56/89 ‒ in una distinta professione che comincia a staccare fattura, in concorrenza allo psicologo. Nel silenzio dell'Ordine e dell'Università, con l'interesse di alcuni segmenti di Scuole di Specializzazione. 
Gli psicologi temono i counselor? A mio avviso gli psicologi sono profondamente arrabbiati nel vedere che ‒ a fronte di un importante percorso formativo in cui si è investito tempo, soldi ed energie ‒ le Istituzioni di categoria hanno tollerato e tollerano certe derive a detrimento di tutta la comunità professionale. Gli psicologi non devono avere paura e non hanno paura. Il counseling è psicologico e lo psicologo è il professionista di riferimento. Allo stesso tempo ciò non è un assunto magico, dobbiamo creare queste condizioni, dobbiamo migliorare la professionalizzazione dei giovani colleghi, dobbiamo aumentare il tasso di rilevanza sociale dello Psicologo presso la società civile, dobbiamo sviluppare maggiori relazioni con amministrazioni e politica. Università, Ordini ed ENPAP dovranno lavorare in sinergia, ed alcuni nodi interni alla comunità professionale dovranno essere sciolti e rimossi.

D. Chiudiamo con un parere dell’esperto. Cosa consiglierebbe a un giovane psicologo che viene da lei a consegnare la documentazione di avvenuta abilitazione?

R. Poche e semplici cose:

  1. hai studiato per anni Psicologia, adesso dedicati un attimo a tutto ciò che non è Psicologia ma che ti permetterà di muoverti meglio come professionista;
  2. non agire a caso, definisci un progetto di sviluppo professionale, a chi intendi rivolgerti, con quale valore distintivo, stabilisci il piano d'azione;
  3. la rete va creata prima che serva, altrimenti è tardi. Qual'è la tua rete di nodi invianti? Come agganciarli e coltivarli?
  4. individua dei modelli, dei maestri, ispirati, confrontati, trova il tuo stile ed il tuo percorso;
  5. partecipa attivamente alla politica professionale del tuo Ordine e dell'ENPAP, devono dare urgentemente discontinuità, quindi seguili, pressali, aiutali;
  6. ed infine... mettici passione e coraggio! Sarà dura e dovrai avere la forza e l'ispirazione di scorgere opportunità laddove gli altri vedono solo insormontabili criticità.