QI - Questioni e idee in psicologia - Il magazine online di Hogrefe Editore

Qi, il magazine online di Hogrefe Editore.
Ogni mese, cultura, scienza ed aggiornamento
in psicologia.

numero 6 - marzo 2013

Hogrefe editore
Archivio riviste

L'intervista

Intervista a Mario De Maglie

Intervista a Mario De Maglie

Il fenomeno della violenza sulle donne è in gran parte ancora sommerso perché c’è paura di denunciare. Secondo l'indagine ISTAT del 2007 sulla violenza e i maltrattamenti contro le donne (l'ultima effettuata sul fenomeno) oltre 14 milioni di donne italiane sono state oggetto di violenza fisica, sessuale o psicologica nella loro vita; nel 2012, 113 sono state uccise. Tra le iniziative per far fronte a queste forme di violenza c’è il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti (CAM), il primo in Italia che si occupa dal 2009 della presa in carico di uomini autori di comportamenti violenti. Mario De Maglie, che ne è il coordinatore, ha recentemente parlato di violenza sulle donne all’interno dell’inchiesta condotta da Repubblica “Uomini che odiano le donne”. Lo abbiamo intervistato, per comprendere meglio i vissuti che caratterizzano gli uomini maltrattanti e il percorso psicologico che viene fatto presso il Centro.

D. Ci presenta l’attività che svolgete presso il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti?

R. Il CAM Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti è il primo centro in Italia che si occupa della presa in carico di uomini autori di comportamenti violenti all’interno delle relazioni affettive. E’ nato da un’idea e da una costola dell’Associazione Artemisia, il centro antiviolenza di Firenze e provincia, e il 17 Novembre 2009 si è costituito in Associazione Onlus, diventando autonomo ed indipendente. E’ quindi, da poco, entrato nel suo quarto anno di vita. Il CAM si propone come un luogo dove poter aiutare gli uomini autori di comportamenti maltrattanti verso le loro compagne e/o i loro figli ad interromperli.
Il nostro servizio consiste nell’offrire, all’uomo, una prima serie di colloqui individuali (di solito cinque sono sufficienti, ma non c’è rigidità in proposito) nei quali si cerca di creare una relazione positiva e si cerca di valutare la gravità della violenza agita e la motivazione al cambiamento. In seguito, valutati questi elementi, c’è la possibilità, per l’utente, di entrare in un gruppo psicoeducativo cocondotto da due facilitatori, un uomo e una donna. Per scelta metodologica, i colloqui individuali sono tenuti da uomini, mentre il gruppo da un operatore ed un’operatrice. Riteniamo importante la presenza di una donna all’interno di un gruppo di soli uomini autori di violenza proprio nei confronti dell’altro sesso. Il ruolo dell’operatrice è quello sia di far confrontare gli uomini con il femminile sia, essendo una persona con una esperienza pluriennale in un centro antiviolenza, di aiutarli ad empatizzare con le vittime. All’interno del ciclo di valutazione, l’uomo firma una liberatoria che ci permette di contattare la partner coinvolta nella situazione di abuso. Il contatto con la partner viene effettuato da un’altra operatrice ed ha lo scopo di informare la donna che il suo compagno sta usufruendo del nostro servizio e di ricevere un suo feedback rispetto al maltrattamento subito. La partner viene ricontattata a metà ed a fine percorso oppure se l’uomo interrompe la frequenza o se valutiamo sussistere una situazione di rischio di reiterazione della violenza. Sin dai primi colloqui, per poter andare avanti, l’utente si impegna a non agire più comportamenti violenti e, se dovessero avvenire, a riferirlo agli operatori da cui è seguito. Il Centro è impegnato anche in attività di sensibilizzazione sulla violenza e sulla diseguaglianza di genere. Abbiamo da poco avviato una formazione su questi temi all’interno delle aziende (prima esperienza in Italia) e ci prepariamo, per il 2013 ad avviare dei lavori all’interno delle scuole per aiutare le ragazze e i ragazzi a riconoscere e a rompere gli stereotipi di genere. Stiamo anche concludendo un corso di formazione specifico per operatori che vogliono lavorare con la nostra utenza e ci stiamo organizzando per tenerne un altro nel 2013. Nuove realtà come la nostra sono nate e stanno nascendo, nonostante la scarsità di fondi sia un problema serio, pensiamo quindi sia importante offrire l’esperienza del nostro lavoro. Da pochissimo è operativa una sede CAM anche a Ferrara.

D. Sono gli uomini autori di violenza a mettersi in contatto con voi in prima persona?

R. Esistono due diversi tipi di arrivo al Centro: il volontario e l’invio obbligato (o comunque fortemente consigliato da avvocati, tribunali, assistenti sociali). Al momento, su 130 uomini che hanno chiamato l’Associazione, un centinaio abbondante lo ha fatto senza esservi costretto legalmente. Di solito sono eventi critici che li portano a chiedere un aiuto: la donna minaccia di chiudere definitivamente la relazione o è stata messa sotto protezione, la donna è finita all’ospedale dopo l’ultimo episodio di maltrattamento o sono intervenute le forze dell’ordine e quindi gli uomini si sono spaventati, oppure possono essersi resi conto di un forte malessere dei loro figli in relazione al loro modo di comportarsi.

D. Come è articolato, di solito, il percorso psicologico degli uomini autori di violenze?

R. Molti uomini, anche se non tutti, minimizzano il loro comportamento violento e si sentono loro le reali vittime. Possono riconoscere di aver sbagliato usando le mani, ma ritengono di non aver avuto altra scelta. È stata la donna a non permettere loro di comportarsi in modo non violento, è lei, secondo loro, il vero elemento aggressivo della coppia. A volte, possono anche non riconoscere in uno schiaffo una vera violenza e possono arrivare da noi con una idea di maltrattamento inconsapevolmente strumentale a giustificarli. Violenza è quella che finisce nel fatto di cronaca, non la loro. All’interno dei colloqui individuali, punto molto sulla responsabilizzazione dell’agito violento. È sicuramente possibile che anche la donna possa avere delle criticità, questo però non giustifica il comportamento violento. Non condanno mai la persona che compie l’atto violento, ma solo l’atto violento. Preferisco parlare di uomini autori di comportamenti violenti, anziché maltrattanti proprio perché ritengo necessario porre l’attenzione su ciò che è realmente sbagliato, ossia il comportamento e non la persona. Non mi interessa dare etichette, ma porre l’evidenza su ciò che di negativo vi è nel comportamento aggressivo utilizzato. D’altro canto agire una violenza è una scelta; così come l’uomo è parte attiva del comportamento violento così lo deve essere della sua interruzione. Considerare la violenza come una malattia è deresponsabilizzare l’uomo, la violenza è un modo di comportarsi che viene scelto e non subito. Le tensioni in ogni coppia sono inevitabili ed il mio lavoro con loro è riuscire ad aiutarli a gestirle senza l’utilizzo di atti prevaricanti. Trovo molto utile lavorare sulle modalità comunicative.

D. Attraverso questo percorso, le violenze dopo quanto iniziano a interrompersi?

R. Abbiamo constatato che la violenza fisica, nella maggior parte dei casi, cessa immediatamente, già dal primo colloquio, mentre il discorso è più complicato per quanto riguarda la violenza psicologica. Gli uomini non capiscono facilmente come certi sguardi, certi atteggiamenti e certe frasi possano intimorire ancora la donna, anche in assenza di comportamenti lesivi fisici, perché riattivano i ricordi delle violenze subite in passato. Non comprendono che le donne sono state vittime di traumi e che per loro non è facile dimenticare con la stessa facilità con cui dimenticano i compagni. È proprio in queste fasi che è estremamente rilevante avere nel gruppo un’operatrice donna con esperienza con le vittime.
Naturalmente io parlo di quegli uomini che continuano il percorso e non del drop-out che, comunque, è diminuito nel corso del tempo, spero anche grazie ad una nostra maggiore esperienza.

D. Ci sono, secondo lei, uomini più predisposti di altri a mettere in atto comportamenti violenti?

R. Non esiste un profilo sociale o psicologico specifico del “maltrattante”; ho accolto in Associazione medici, avvocati, operari, liberi imprenditori, esponenti delle forze dell’ordine, agricoltori, pensionati etc. Sono persone con cui si può prendere tranquillamente un caffè al bar senza avere minimamente idea del loro comportamento violento. Anche per noi psicologi e terapeuti è difficile, senza una formazione adeguata, riconoscere questo tipo di uomini in contesti di setting privato, rischiamo facilmente di colludere con la violenza e “pensare che lei sia proprio una stronza”. Sono molto bravi a fare dei ritratti poco lusinghieri delle loro compagne ed il rischio è quello di considerarli veramente delle vittime. Per questo motivo credo che tutti, uomini e donne, siamo a rischio di mettere in atto comportamenti violenti, così come siamo capaci di subirli. Il discorso è molto amplio ed interessante e non posso che farvi pochi accenni, ma più vado avanti con il mio lavoro e con la mia vita, più mi rendo conto di quanto la gente in casa, per strada, sui luoghi di lavoro non sia in grado di riconoscere dei comportamenti violenti e prevaricanti e di dare a questi  il loro nome ed il loro peso. C’è una sorta di normalizzazione della violenza. Quanti genitori possono arrivare a dare uno schiaffo al proprio figlio considerando l’atto giusto e meritato? Uno schiaffo è un comportamento violento, non viene riconosciuto, ma giustificato e la cosa peggiore è che viene considerato educativo. Non c’è niente di educativo in uno schiaffo, il bambino non impara niente, modifica in modo innaturale un suo comportamento solo perché ha paura della punizione corporale. Viene allontanato con la violenza e la paura da quello che sente e imparerà a fare altrettanto con gli altri.
Pur non essendo una regola, alcuni degli uomini, prima di agire delle violenze, le hanno anche subite. Se, da bambino, si vede il proprio padre umiliare la propria madre e avere ragione su di lei con la forza è facile che si pensi che ciò sia normale e lo si ripropone con la propria donna. Se, da bambino, ricevere delle botte dai genitori è normale, lo sarà anche, da adulto, darle ai propri figli. Se una cosa la fanno tutti è normale, se la fanno tutti la posso fare anche io e non sentirmi in colpa. C’è una predisposizione sociale e culturale che crea terreno fertile per gli atti violenti. Anche se considerassimo esclusivamente la violenza di genere le statistiche sono allarmanti e non tengono conto di tutta la violenza che si consuma all’interno delle mura domestiche e che da lì mai uscirà.

D. I comportamenti violenti sono associati esclusivamente all’emozione della rabbia. Ci sono altre emozioni, oltre alla rabbia, che caratterizzano i comportamenti violenti?

R. La rabbia è sicuramente ciò che prevale durante il nascere e l’esplosione della violenza. Spesso gli uomini riportano che la rabbia è stata innescata dal non sentirsi riconosciuti dalla donna in qualcosa, per loro, molto importante. È un mancato riconoscimento dei loro bisogni che fa nascere la collera, anche se, loro per primi, non sono in grado di riconoscere i bisogni della partner. Una relazione è funzionale e libera solo se entrambi i membri sono in grado di esprimere i propri bisogni e di riconoscere quelli dell’altro. Quello che constato è che la violenza nasce dal non essere stati in grado di comunicare. Molto spesso nessuno ci ha insegnato a comunicare in modo non violento. Dopo l’esplosione di collera in alcuni uomini prevale il senso di colpa e quindi un disagio che evidenzia, nell’intimo, che hanno commesso qualcosa di sbagliato.

D. Secondo i dati forniti da Telefono Rosa, quest’anno In Italia le violenze sulle donne sono arrivate a coprire l’85% rispetto al totale delle violenze. Come mai, secondo lei, in Italia gli episodi di violenza sulle donne sono in aumento?

R. Io credo che il sommerso, al riguardo, sia un dato molto elevato che non può non essere preso in considerazione. Le cifre ufficiali sono soltanto la punta di un iceberg e anche solo una donna o un bambino che subiscono delle violenze saranno sempre una donna e un bambino di troppo. Lo stesso discorso vale per uomini che subiscono soprusi da parte di donne; lo preciso perché spesso sono “rimproverato” di non dire nulla sulla violenza delle donne verso gli uomini facendo finta che non esista. Non faccio finta che non esista, semplicemente non me ne occupo e sono convinto che comunque ci sia un innegabile sbilanciamento sociale e culturale a sfavore delle donne. Basta accendere la televisione oppure guardare alla storia recente e passata.

D. Ci sono degli stereotipi culturali che alimentano la violenza sulle donne secondo lei?

R. Ogni stereotipo è un vero salto mortale che compie il pensiero, e nelle relazioni tra uomini e donne ne siamo pieni, ecco perché considero prioritario un lavoro con i ragazzi delle scuole per cercare di abbatterli. Io stesso, nonostante faccia questo lavoro, spesso fatico ad allontanarmi dagli stereotipi del mio genere perché ne sono stato imbevuto come tutti gli altri. Pensiamo alla grammatica dove i termini “uomo” e “uomini” sono onnicomprensivi di “donna” e “donne”. In una classe i professori e le professoresse entreranno sempre dicendo “buongiorno ragazzi”, anche se magari c’è un solo ragazzo e tutte le altre sono ragazze. Cosa penseremmo noi maschietti se un docente entrando dicesse “buongiorno ragazze” e fossimo tutti ragazzi eccezion fatta per una alunna? Le stesse donne sono talmente immerse in questo clima che non è scontato che riflettano sull’evidenza. Un medico donna molto giovane, durante un gruppo di discussione sul genere, mi disse che era stufa che i pazienti la chiamassero tutti signorina, mentre il suo collega coetaneo maschio era chiamato dottore. Non tanto tempo fa sono stato ad un convegno in cui quattro differenti scuole di psicoterapia confrontavano le loro diverse modalità di intervento nelle relazioni di aiuto. Il 90% degli allievi e dei docenti erano donne, ma tutti i caposcuola erano uomini. Statisticamente sarebbero dovute essere delle donne anche i caposcuola, ma erano uomini. Lo vogliamo chiamare caso? Sbaglierò, ma io lo faccio rientrare nei vantaggi dell’essere uomo.
Sia chiaro che non sono contro il mio sesso, sono solo per la parità dei sessi che è cosa differente. Sta a noi fare delle nostre differenze di uomini e donne una risorsa o un limite.
Carl Rogers diceva: "Una delle ragioni principali della resistenza a comprendere, è la paura del cambiamento: se veramente mi permetto di capire un'altra persona, posso essere cambiato da quanto comprendo. Tutti abbiamo paura di cambiare!» Se veramente ci permettiamo di capirci tra uomini e donne possiamo cambiare ed è questo cambiamento che fa paura, ma io lo ritengo necessario e potenzialmente costruttivo. Sugli stereotipi di genere ci sarebbe molto da dire, da riflettere e discutere.

D. Quando si parla di violenza, si tende a pensare solo alla violenza fisica sottovalutando quella psicologica. Ci parla delle conseguenze della violenza psicologica?

R. Non c’è violenza fisica senza che ci sia anche una violenza psicologica, ma ci può essere violenza psicologica senza arrivare a quella fisica. Credo che solo un nostro utente abbia agito esclusivamente violenza di tipo psicologico. La violenza fisica è tangibile, un livido è qualcosa che per un po’ ti porti sulla pelle e che puoi guardare, quando vuoi, per dirti che non ti stai inventando tutto, per dirla in termini semplicistici. Una violenza psicologica non la puoi riconoscere così facilmente, è molto più subdola e devastante nell’animo. Molte donne in situazioni di maltrattamento vengono allontanate dalle loro relazioni più significative e “rimangono sole” con lui. Lui diventa il loro esclusivo parametro di valutazione di ciò che sentono e di ciò che accade all’interno della coppia. È tremendo. Per gli stessi uomini, come accennato prima, può essere molto difficile riconoscere la violenza psicologica. E se già faticano a riconoscere un atto lesivo fisicamente come violento, si può immaginare quanto il lavoro per il riconoscimento del maltrattamento psicologico possa essere faticoso. Anche qui però non vorrei soffermarmi solo sui “nostri uomini” che sono arrivati a commettere degli atti violenti fisici e a chiedere un aiuto. Maltrattamento psicologico sono anche gli stessi stereotipi di genere presi in considerazione prima e quindi è un fenomeno diffusissimo. Tempo fa ero con una coppia sposata di conoscenti in auto che mi stavano dando un passaggio. Guidava lei e lui è stato durante tutto il tragitto a fare il puntiglioso sulla sua guida manifestando un aperto nervosismo. Il tratto di strada ed il parcheggio necessario perché mi riaccompagnassero erano stati realmente difficili, ma lo devono essere stati ancora di più per quella donna che si è dovuta sorbire l’ansia causata dal nervosismo fuori luogo del marito. In una situazione del genere è facile fare incidenti. Sono certo che, con un uomo al volante, lui non sarebbe stato così denigratorio, indipendentemente dalle capacità di guida. Con la moglie (donna) non si è fatto scrupoli. Non credo lui sia mai arrivato a colpire lei, ma non credo che per lei la vita con lui sia facile nonostante questo. Quello che voglio dire è che, una volta che si è sensibilizzati al problema del maltrattamento, i nostri occhi vedono molte cose sotto una luce diversa e “osiamo chiamare la violenza per nome”.