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numero 41 - ottobre 2016

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L'intervista

Intervista a Gabriele Giorgi

Intervista a Gabriele Giorgi

Gabriele Giorgi e Javier Fiz Perez, professori, di Psicologia dell’organizzazione il primo e di Psicologia della formazione il secondo, presso l’Università Europea di Roma, hanno fondato il Business@Health Laboratory, un centro di ricerca interdisciplinare, innovativo e di eccellenza. Chiediamo al prof. Giorgi di illustrarci il progetto.

D. Professore, quali sono le attività portate avanti dal Business@Health Laboratory dell’Università Europea di Roma?

R. Il laboratorio Business@Health collabora con importanti business school internazionali e con scuole italiane di medicina del lavoro, offrendo servizi e ricerche ad alto impact scientifico. Svolge attività di ricerca-intervento con organizzazioni e aziende multinazionali, su temi che riguardano sia processi HR (la performance, l’engagement, la motivazione, la valutazione del potenziale), sia Health & Safety (la valutazione dei rischi, la safety leadership, la valutazione del rischio stress lavoro-correlato).
Il motto del laboratorio è “Non esiste business senza la salute dei lavoratori. La salute dei lavoratori è business”. In sintesi, esso si pone come strumento di networking con imprese ed organizzazioni, stimolando, con seminari e convegni, un dibattito scientifico e professionale.
Inoltre, supporta gli studenti che sono il fulcro dell’Università Europea di Roma. Abbiamo studenti che, collaborando con il laboratorio, sostengono tesi di laurea in inglese e svolgono project work ed esperienze aziendali: ciò ne accresce il percorso professionale rendendoli fortemente appetibili sul mercato.

D. A volte, anche nella psicologia accademica, si tende a separare in modo netto la psicologia clinica dalla psicologia del lavoro. Tuttavia, il disagio che spesso le persone vivono ha a che fare con il lavoro. A questo proposito può dirci quali sono i disagi legati alla sfera lavorativa, che le persone sono portate a sperimentare frequentemente?

R. Non solo la psicologia accademica opera una distinzione tra psicologia clinica e psicologia del lavoro, ma anche la formazione post-lauream (come le scuole di psicoterapia) tende ad avere una visione della psiche dell’uomo acontestualizzata dal lavoro. Tuttavia tanti disagi possono avere un’eziologia lavorativa o avere dei pattern di sviluppo diversi se originati sul luogo di lavoro rispetto ad altri setting.

Dall’altra parte il lavoro diventa giorno dopo giorno sempre più impattante nella dimensione psicologica individuale, alimentando rischi e pericoli di malattie e sofferenze. Risultano in forte aumento, anche in connessione con la società aged e con la crisi economica, il burnout, il mobbing, i disturbi da stress lavoro-correlato e i disturbi post-traumatici a seguito di violenze (aggressioni, rapine, molestie morali, discriminazioni). Un grande pericolo rimane quello rappresentato dalla compromissione della salute mentale (forti ansietà, depressione, pensieri negativi, ossessioni e dipendenze), che rischia non solo di ridurre la capacità lavorativa, ma di avere conseguenze anche molto negative sulla vita non lavorativa.

Infine, appaiono paure multiple, da quella della disoccupazione alla paura dei manager trasferitisi all’estero di spostarsi dal luogo di residenza (fear of expatriation), fino alla paura della diversità culturale. Il campo della psicopatologia lavorativa è quindi in grande espansione.

D. Lei è un esperto sul tema del mobbing. Come consiglia di comportarsi a uno psicologo o psicoterapeuta che durante un percorso di sostegno o psicoterapia si rende conto che la persona è vittima di mobbing?

R. È importante indirizzare la vittima verso un centro di riferimento per il trattamento delle vittime di mobbing, così da supportarla in modo corretto e globale. Il confronto con uno psicologo del lavoro, esperto della materia, è un altro consiglio da seguire. Lo psicologo o lo psicoterapeuta che non hanno basi di psicologia del lavoro rischiano infatti di non comprendere sino in fondo il disagio della vittima che hanno davanti. Gli antecedenti del mobbing sono originati da costrizioni lavorative, come ci ricorda la ricerca scientifica, e solo raramente sono causati da problemi psicologici personali, che funzionano invece da fattori aggravanti.

D. In Italia non sono presenti in commercio test per formulare ipotesi sul fatto che la persona sia vittima di mobbing, sebbene siano stati utilizzati alcuni test stranieri come il Negative Acts Questionnaire-Revised da lei adattato. Come mai non c’è la commercializzazione di questi strumenti?

R. Sicuramente il fenomeno del mobbing è molto complesso e ancora non pienamente riconosciuto sul piano legale come in altri paesi dove, da molti anni, esiste una legge sul mobbing. Ciò ha generato minore interesse sul fenomeno. Dall’altra parte un’eccessiva clinicizzazione delle perizie sul mobbing, a discapito dello studio del nesso causale sul lavoro, porta molti studiosi ad utilizzare test che poco hanno a che fare con le costrizioni negative del mobbing. Il Business@Health Laboratory potrebbe dar vita a un test diagnostico. Potrebbe essere una sfida interessante e sicuramente un aiuto per una valutazione scientifica delle vittime.

D. Molto spesso dirigenti o responsabili danno per scontato che il senso del dovere sia di per sé sufficiente per motivare le persone a fare bene il proprio lavoro e che il pagamento di uno stipendio sia una sufficiente fonte di soddisfazione lavorativa. Da cosa nasce secondo lei questa falsa credenza?

R. Modelli di psicologia del lavoro ingenua sono sempre presenti, talvolta diventando dei veri e propri bias anche in figure apicali e manager. La distorsione di visione tra manager e subordinato è proprio alla base dello Stress Questionnaire (SQ: Giorgi, Arcangeli e Cupelli, 2013) e rappresenta una realtà. Sicuramente la cultura manageriale in materia di psicologia delle organizzazioni non è delle più sviluppate, la disciplina è giovane e i suoi modelli sono spesso presi in prestito da professionisti che ne hanno una conoscenza parziale o grezza, portando anche la formazione manageriale a essere lacunosa o a generare nei formati un effetto luna di miele (il successo della formazione ha un effetto limitato nel tempo).

D. La crisi economica del 2008 si trascina dietro delle conseguenze spiacevoli su più fronti. Tra queste, in Italia, sembra riscontrarsi il fatto di contenere i costi al massimo non investendo nel benessere delle persone (tra cui anche la formazione, che è un elemento che ha un impatto molto importante in termini di motivazione ed efficacia personale). È d’accordo con questa osservazione? Quali riflessioni vorrebbe condividere?

R. La crisi ha purtroppo colpito duramente il nostro Paese. La cattedra di Psicologia delle organizzazioni dell’Università Europea di Roma è stata la prima ad occuparsi dei suoi effetti andando a indagare la paura della crisi economica(Giorgi, Arcangeli, Mucci, Cupelli, 2015; Giorgi, Shoss, Leon-Perez, 2015) non solo sui disoccupati, ma anche su chi aveva un posto di lavoro. Purtroppo la paura della crisi economica è molta alta. La formazione rappresenta sicuramente un elemento poco tangibile in azienda e pertanto, come altri processi HR, è a rischio “ taglio” o “saving”. Un peccato, perché una formazione buona e scientifica è una leva di business, di cambiamento organizzativo e di benessere.

D. Dal suo punto di vista quanta attenzione c’è nelle aziende italiane ai temi del benessere e della prevenzione?

R. Nel corso dell’ultimo quindicennio, anche in Italia, è aumentato l’interesse nei confronti del benessere in connessione allo stress in ambito occupazionale. Alla valutazione dei rischi tradizionali (quali quelli di natura chimica, fisica e biologica) è stata, dunque, aggiunta – sulla base di un esplicito obbligo legislativo e di un riferimento condiviso a livello comunitario – anche quella concernente i rischi di natura psicosociale, legati all’organizzazione del lavoro e alle relazioni umane.

La rilevanza del rischio stress lavoro-correlato è ancora più evidente se si considera che lo stesso possa agire come modulatore dei rischi tradizionali, aggravandone gli effetti. Dall’altra parte, le aziende hanno utilizzato maggiori risorse per la valutazione dello stress, a discapito degli interventi per lo sviluppo del benessere. Pertanto in ambito formativo credo che le aziende debbano maturare ancora una cultura dell’healthy business.

D. Come immagina il futuro delle imprese italiane in termini di benessere lavorativo?

R. Il benessere diventerà sempre più un elemento di business. Le aziende che investiranno in benessere e salute avranno lavoratori produttivi, sani ed eccellenti. Chi non lo farà sarà vittima degli spietati effetti dell’aging, dei continui e sempre più repentini cambiamenti sociali, culturali, organizzativi che metteranno il lavoratore, giorno dopo giorno, sempre più in ginocchio in aziende che saranno dominate dalla logica homo homini lupus.

 

Bibliografia

Giorgi, G., Arcangeli, G e Cupelli, V. (2013). SQ – Stress Questionnaire. Firenze: Hogrefe Editore

Giorgi, G., Arcangeli, G, Mucci, N. e Cupelli, V. (2015). Economic stress in workplace: The impact of fear the crisis on mental health. Work, 51(1), 135-142.

Giorgi, G., Shoss, MK e Leon-Perez, J.M. (2015). Going beyond workplace stressors: Economic crisis and perceived employability in relation to psychological distress and job dissatisfaction. International Journal of Stress Management, Vol 22(2), 137-158.